domenica 14 febbraio 2010

sestanti - Una visione del mito nella narratività - per frammenti, soglie

I. Scrittura visiva_il mito dei frangenti
La riflessione su alcune opere, alcuni procedimenti descrittivi, dell'autore è il modo in cui affrontare questo breve saggio – racconto. Scoprirne i vincoli formativi tra temi e nozioni è come costituire il testo come oggetto di riscrittura, di riflessione e di esperienza. La teoria della visione al centro del processo pedagogico: pensiamo a come elevarsi per poter guardare con maggiore profondità nei livelli superiori, o come apprezzare la leggera dissimetria nell’accesso all’opera, come considerare l’oggetto teorico-culturale rispetto ad una teoria delle forme ben formata, insomma come verificare l’universalità dello schema di Paolo Uccello, del cavaliere, del knight, sulla mise en page narrativa, che distribuisce miti, contenuti, scene, livelli di astrazione complessi, finestre sulla temporalità, forme di flusso più o meno continuo del discorso. Un costume, quello del fregiarsi, che assimila il modello euristico all’autobiografia.

    L’autore sul quale mi sono apprestata a trovare questi ambiti, lungo alcuni anni di ricerca, sulla tesi di laurea, è Italo Calvino. In un certo senso abbiamo molti Italo Calvino, ma seguendo questa ipotesi, è dimostrabile una sorta di unità: il Calvino dei saggi, in cui apparentemente la scrittura diviene essa stessa oggetto mitizzabile e, soprattutto, il Calvino che ha vissuto un concetto di narratività accanto a testi visuali-visivi: da Dante a Ignazio di Loyola a Carpaccio, Leonardo da vinci, Michelangelo, solo per considerare uno itao tra medioevo e modernità, ora considerati alla stregua di autori che hanno sottoposto le loro invenzioni alle regole della narrativà. Occorre dunque risalire all’idea generale di letteratura proprio come riscrittura per comprendere i modi di queste riscoperte – di una testualità che non sia mera catalogazione di oggetti irraggiungibili, inafferrabili benché seduttivi. Italo Calvino è stato significativamente uno scrittore osservante alcune regole di ricerca: da Hjelmslev Le langage riscopre l’importanza della fiaba, e in tal senso traduce la letteratura riattualizzandone le figure, ma accanto a questa impresa letteraria, voluta per Einaudi, ha misurato la propria speculazione filosofica sul concetto di 'classico' e sulle sue forme. Un primo esempio, di questa ipotesi di studio, è l’Ariosto il cui tema o mito di fondo, ora riletto con figure concrete e riattualizzabili è la passione. Il termine conduce a comprendere come passione e ricerca possano essere luoghi della filosofia (ethos ed pathos - secondo la scuola aristotelica e quindi generativa poi, ma in qualche misura sia la matrice di un fare creativo che attinge al logos in termini di figurazione, o figurale, in termini pittorici e quindi, secondo alcune declinazioni di Eco, di argomentazione presemiotica - per poi divenire elemento grafico), quindi, ai modi e alle valenze cui questa situazione di leggibilità la espone innestando una dinamica del valore irrecusabile, oggettiva. Di volta in volta Calvino sceglie motivazioni di genere: il romanzo, ne Il cavaliere inesistente, il gender per la figura di Bradamante (quasi una accademica armigera di medievale estrazione) destinata ad interpretare e sovvertire il mito stesso della scrittura come univoco possesso dell’uomo. Quasi un ritorno di ritmie arabe, di figure aniconiche di scenografie aperte a trasformazioni improvvise, che devono la loro cultura alla dantesca “alta fantasia”. Ciò che il mito sembra promettere, è la propria ermetica chiusura, alla pari del simbolo, ed è dunque un significante che ci troviamo ad interpretare, a reincorporare, nelle sue ricostruzioni soggettive del gusto, dell’atmosfera della bellezza naturale ri-codificata, tradotta. Poi interpreti di nuove sceneggiature, forse. Anche se sensibilmente si ha la percezione che grafica e musica siano gli ambiti dove queste architetture risaltino come filigrane di un tessuto cartaceo, epidermidi anch’esse, del gusto, frangenti otticamente e tattilmente sensibili.
    Nell’apertura all’edizione Einaudi dell’Orlando Furioso, il gotico fiammeggiante è già diffuso in tutta Europa, e la sua consolidata regola permea lo sviluppo della pietra, Calvino propone un genere di dialogo, la riappropriazione del mito, che costituisce la risorsa della letterarietà. Accanto al testo di Segre, Calvino ci porta all’interno della fenomenologia del discorso con valenze socioculturali. La prossimità degli interessi semiologici lo avvicinano alla costruzione precisa ed algebrica dell’Ariosto, prototipo fra gli autori internazionali del Quattrocento italiano. Qui il problema della forma dell’espressione nel contesto del libro e della ricchezza problematica ereditata come “mito della riscrittura”, ironicamente si accosta a scene affrontate quali tipologie di scrittura, dalla traduzione interlinguistica, oltre che alla reinvenzione. Calvino è infatti scrittore (forse) giustamente definito artigianale (per citare un contesto di studi, À la découvèrte de Italo Calvino, Cérisy–la–Salle, France, 1999): egli ristruttura l’impianto stesso del libro, ritraduce, ri – cita frasi anche sotto forma di giochi linguistici (anagrammi, acrostici, in forma riflessiva e simbolica, mitica introducendo uno iato figurale tra immagine e parola – l’immagine scritta); se da una lato pone il problema dell’autorialità, nelle sue funzioni tipiche, tra una scrittura sentita, programmata come scientifica ed un’esperienza umanistica in senso lato, il corpus dell’opera in cui prende corso la reinvenzione dei casi, affronta soprattutto problemi tipici di stile, rendendo così manifesta la dignità ricostruita del gesto, ora maturo del lettore – rilettore dei classici. Dunque le figure del mito possono rivivere in sceneggiature che ne mantengono intatte alcune proprietà: Il cavaliere inesistente è ora il mito di una filosofia alla ricerca di configurazioni orientalizzanti (lo zen per esempio) ricoprendo uno iato che dissimula la leggenda, come applicazione di una categoria universale, logica persino. Il Visconte dimezzato è costruito sulla ricerca del bene in senso umanistico (etho e spathos), dove possono riemergere figure sdoppiate a livello enunciazionale, regole, proiettive che innescano arie luminose ed oscuri meandri di forze equivocanti – Il san Giorgio e il Drago e il Sant’Agostino del Carpaccio, sono riletti in modo squisitamente filosofico – narrativo, ma fanno apparire le opere narrative come teli, cinematografici, sceneggiature neorealiste. Tali figure divengono mito letterario attraverso lo statuto, sia cognitivamente che pragmaticamente saliente, di una ipotesi di scrittura intesa come storico esperienziale (in riferimento alla relazione tra descrizione e autobiografia) mentre ne I nidi di ragno del 1957, stesso anno de L’Isola di Arturo di Elsa Morante, più che di una civiltà in senso lato che rende visibile la scrittura come oggetto materiale – monumentale, si tratta di una fuga spirituale dal destino tragico della guerra. La forma espressiva è quindi ancorata al supporto, che diviene oggetto culturale in termini di racconto (sfondo etico). L’esempio si ritrova di nuovo in Collezioni di sabbia dove il mito dell’oggettività diviene scrupolo di una norma di lettura. Alla stregua di castelli di sabbia potremmo vedere città mitologiche, celesti, o concrete, dove rifugiarsi, in un tentativo di fuga dall’assolutizzante omogeneità di forme piovute dall’alto, ne Le città invisibili – con fortificazioni difensive del crogiuolo di cultura che si palatinizza, lentamente. Il conflitto culturale è posto in termini iconici, di contrasto, mentre il visivo vero e proprio, per estensione ridesta il logos di una tessitura riverberata in altri periodi storici, come le salienze della scrittura egizia. Ne Lo sguardo dell’archeologo, sia sotto forme meno critiche o analitiche, apparentemente, come La colonna Traianea al limite di una proposta di scuola dello sguardo (pubblicata in FMR), tra attorialità ed elogio del contatto con il testo diretto, privo di messe in ombra della citazione, la scrittura diviene così una forma di sapienza ed ex voto, promessa di riscatto, da ricollocare all’interno della dinamica valoriale – un discorso che riporta in luce riscattandoli i volti della letteratura – nel riesumarne i testi. Questa l’archeologia – quasi iconica di Italo Calvino. Ciò che scolpisce la carta su cui incide il senso del discorso è un modo medievale, umanistico di ricomporre l’obiettivo, l’objecto, conservativo della scrittura: il punto di partenza, il gesto di apertura, rimane l’istanza narrativa enunciante attraverso il possesso di qualità fenomenologiche che dà all’oggetto storico dei limiti che qualificano in qualche misura il gesto stesso di apertura dell’analisi – così l’esperienza letteraria-estetica, giustifica progetti ciclopici che devono avere concetti euristici generali tali da soddisfare regole interpretative, palinsesti collettivi.
Lezioni americane – Norton Lectures – un luogo di Peirce anche nelle N. Readers - investe sul ruolo della scrittura come mito costituzionale. Se sullo sfondo il mito della scrittura come risorsa umbratile è Conrad, è nella sua possibilità di proporre figure, metafore espressive, che rimettono in causa la scientificità e l’immaginazione potenziale, quali ipotesi generative, attraverso la coscienza delle trasformazioni del proprio sapere e di quello dell’altro. È certo stato osservato da diversi autori (tra cui Philippe Darros, Roberto Deidier, Paolo Fabbri, solo per citarne brevemente alcuni tra visivo e narrativo), che l’oggetto del romanzo si propone tal volta come riattualizzazione, di leggibilità dell’opera, assumendo un significato propositivo inedito – dove se la traduzione possiede regole, meccanismi riproduttivi, ha tuttavia qualcosa di intrinseco, la possibilità di ricostruire una certa intensione sintattica, una visione incerta tal volta della superficie del campo semantico, tutta da esplorare, un’oggettività o “benjaminiana esattezza”, che segue termini in opposizione drastica che sono topoi della pagina – enunciati di valore - dal punto di vista visivo e narrativo che quindi si surmodalizzano di contenuto. Un saper vedere che implica, un gusto per l’accessibilità del discorso sull’opera: un lavorio della critica, che sembra sfrondare le quinte e togliersi dall’aurea dello spettatore per riassumere quella del faccendiere, tutto fare, leggiadro scopritore di inediti frangenti. La scoperta di questa misura plurivoca, resistente, di semiotiche (narrativo diviene, evidentemente, un testo di Berio, musicale) ha reso possibile un percorso sperimentale, senza cariche negative troppo profonde, senza sistematiche frontali tali da opporsi al lettore: una reciprocità di tatto e contatto con gli oggetti che diviene schema evolutivo.    
    La sua tensione artigianale, da tarsia, le cui fughe giocano di soppiatto nuove animazioni, è un semema del cinema – quella tensione tra stile e artigianato, tra scrittura e logos (corpo o luogo) - che sembrano affiorare direttamente dalla dicotomia barthesiana, in cui ogni libro è ideograficamente la cura di una mancanza di delucidazione. Instaura un percorso di riscrittura inteso come organon fenomenologico quando, come Yourcenar, riesce a danzare, viaggiare con il lettore, in un viaggio senza tempo, distribuito sulle esigenze dell’esperienza – a vocazione universalizzante. Mentre come nella predella delle stazioni, la laicità di Calvino sembra enunciarsi come gravida di riferimento alla domus paleocristiana, si rivolge alla casa editrice – con l’immagine magrittiana di Una pietra sopra: sfondo. La metodologia etica intreccia una discussione con i Miti d’oggi del consumo letterario – sono i suoi “propri”, i suoi “daimon”, quelli dello scrittore Calvino, a confluire nella dialettica; è certo il saggio più cospicuo della crisi che apre alla metodologia umanistica in termini cibernetici non senza enunciare qualche dogma canonile della professione.

II. Alla ricerca di alcune definizioni
Ultimo pretesto, per parlare di mito e visione della letterarietà, nell’iperbole calviniana è dato dal concetto di rivoluzione: Galileo che guarda la Luna ma che ne è visto, si immagina l’autore, in uno dei possibili libri sulla Terra, apre alle Cosmicomiche, in cui l’autore è costretto a fingersi oggettivo, inventando ed esplorando le maglie di un discorso proiettivo, talvolta sensuale, sulla scienza, feconda di forme e di scoperte possibili, e sull’esercizio di pensiero che diviene oggetto di una riflessione (si pensi al ghedanken experiment); la ricerca è modello dei modelli, appassionata sistematica delle proprie convinzioni, sguardo che si smarrisce ritrovandosi in uno spazio infinito e indefinito, in Palomar. In questo caso lo spazio mitologico è quello del Mondo scritto e non scritto di Galileo, della lectio magistralis si potrebbe dire tenuta all’École des hautes études di Parigi nel 1984 – ma mentre illustra, stile Kurosawa, il mito antico, immerge le figure personali, gli effetti di presenza nella California degli anni ’70-’80. Certo mitogramma dell’Isola di Arturo di Elsa Morante, forse, se ricorda omofonicamente il ricercatore ebreo fuggito al nazismo che inventa lo specchio a forma di alveare a Bologna (La Specola), John di Arturo. Per Calvino, l’osservazione è un modo per purificare la mente: alcuni impulsi straordinari che si rivelano in Se una notte d’inverno un viaggiatore, lo liberano dalla demagogia sessista del potere del libro. Poi è la scienza dell’osservazione nella sua dialettica semiologica a convertirlo profondamente ad una veste canonile della scrittura visiva: con Svetlana Alpers, perlustra i campi più remoti della costruzione cognitivista della semiotica che provengono dal pragmatismo, con una fertilità di intuizioni improvvise – Rembrandt diviene l’apologo della scrittura impugnata, più che impegnata. Tenere in mano la penna, custodire la forma della scrittura, danno sapore al virtuosismo iconografico di Escher tra letteratura, estetica e l’ingegneria edile di un mondo possibile da costruire. La Alpers lo guida alla profondità, all’ambra stilizzata da vedere in una luce fioca di ombre e rami imprevisti dove per restare vivide le forme devono assumere il valore dei dati, dei fenomeni da osservare. La critica non può esimersi dalla scienze del contenuto, così l’operatività di Calvino diviene selezione di soggetti che gli piacciono, lo coinvolgono, in equilibrio, tra informazione e cultura avvolgente. L’oggetto stesso del vedere, in Palomar, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, sembrano omaggi alla sperimentazione della “durata dello sguardo”, all’intensione dell’invenzione, ai suoi limiti urbani, civili. Se dalla visione cibernetica emergono i fantasmi della guerra, è il talento e la fiducia nella comicità, nell’ironia che risvegliano la scienza, nella serendipity calviniana, dove le cose, non sono viste che sotto una nuova o diversa angolazione. Osservazioni dalla finestra ottica albertiana e viste a cannocchiale si confondono, integrandosi, iponimica una, e iperonimica l’altra, come principio della variazione, digressione consentita, divengono sinonimi di due diverse linearità del divenire visivo. Non meno che filologico, congetturale, sui modelli, come tappeti di Aladino (il pensiero di Dante era volto più al trivio che al quadrivio e la fisica ottica, nel Paradiso, era già costitutiva di una visione del mondo a nodi, a canti che intrecciano percorsi interattivi, dove il cuore del discorso è una sorta di interdisciplinarietà di modelli) – così se dalla visione dei generi Calvino apprende il concetto di neutro e costituisce comunque sfide agli oggetti storici, l’occhio, la percezione visiva e quindi il tatto, costituiscono anafore della mente, del senziente: il testo scorso, la corazza pulita nelle sue interfacce, ricorda quella del duca da Montefeltro, i suoi rilfessi, finestre o specchi del senso del luogo.
Narratività per immagini o cotesti come Leggere un quadro come fosse un romanzo sono i luoghi dell’esercizio del mito per la storia in Italo Calvino, concetti, forme che potrebbero non destare stupore se finalmente generalizzati ma costituire appunto dei residui topici veri e propri – avanzi – cocci dell’arte del descrivere. Per Svetlana l’altro paladino della stratificazione ekfrastica è Vermeer, olandese, immerso nella luce nordica della costa – mentre è il Seicento Barocco e tortile a indulgere nelle divagazioni, nelle variazioni, nelle digressioni più inconsuete e sorprendenti. Svetlana traduce e Calvino immerge la scrittura in una sorta di purificazione dal mal di scrivere professionale, monotono, quotidiano, informativo e secco – gli oggetti si moltiplicano come visti attraverso una toilette di specchi: nella veste del pittore, troviamo la storia, la geografia, l’osservazione – anche le generalizzazioni si astraggono, come per un processo di ricerca, di "sollevazione", in punta di piedi, come per la tarsia, per poter guardare in quello scomparto all’ultimo piano, cosa c’è, in quelle profondità – e si dà il caso che Vermeer con un pizzico di complicità a sua volta ci guarda, quasi ammiccante, come di qualcuno che ha visto e ce lo vuole dire, indagando solo con il quadro, il suo strumento prediletto, la filosofia del discorso. La lettera, il libro, la carta geografica sul muro o sul tavolo, o incollata sul mappamondo; l’attesa, la sorpresa, lo sguardo oltre la grata della finestra come per seguire il corso dell’immaginazione, il modo in cui il supporto si lega all’intonaco, al latte versato nella ciotola, alla camicia, alla carta intonsa dei margini lasciati respirare della carta appesa per una sola asticella: in termini simbolici, commisura lo spazio, in una serie di posizioni di lettura, adotta, si può dire, un silenzio posturale per lasciare spazio ad uno sguardo eloquente. La luce diviene protagonista del modo di generare senso in uno spazio restituito all’etica moderna. Mediatrice del pensiero scientifico che ragiona per evidenze, anche la cornice dà forma alla situazione, inquadrandola in scorci immediati in modo che risalti l’oggetto dell’occupazione – se la qualità della pittura è naturalistica, le proprietà di cui si costituisce l’opera restituiscono parte del mitogramma in cui protagonista è proprio quell’industriosa messa all’opera della lettura, della scrittura, della riflessione ponderata ed energica. Il Mondo diventa una rappresentazione possibile, una nobiltà obbligata, raffigurata in una figurazione emblematica stagliata quale configurazione atipica, unica, individualizzata. Stanco di usare parole desuete, lo scrittore, riflette sulla filigrana dei rapporti tra descrizione e rappresentazione. Scompaiono le frasi didascaliche, il lettore riacquista il diritto all’esplorazione fantastica dell’opera narrativa. Mentre il quadro di storia designa il mito, d’Europa, la scrittura-pittura del quadro diviene equivoca: esistenza strutturale basata sullo scambio e alta riflessione sull’architettura di questi rapporti che si intessono e si complicano. Due ambiti estremi, quelli del privato e del pubblico che l’Olanda comincia ad interpretare con la sua curiosità per i massimi sistemi.
    La condizione estetica della realtà non ne è esclusa, è antropologicamente mediata, misurabile e limitatamente consumabile. Ora il raffronto “testo a testo” della trasposizione del mito è stato uno dei luoghi più rappresentativi di una sorta di traduzione – riscrittura proprio dalla scuola di NewYork, l’interattività del commento, l’ipotesi del chiarimento induttivo, lo spazio della riflessione, sono necessità esistenziali. In Calvino questa “pittura” dello stile, giocando al contrario, questa individuazione dello stile, cecandovi la postura, si nota nei racconti a saggio breve in cui rivive il mito dello scrittore come aurea, penombra dell'opera d'arte: Lo spazio inquieto dedicato a Fausto Melotti, diviene contrappunto straordinario di finitezza e non finito, quale esempio di dispositivi letterari svincolati dal catalogo saggistico – la teoria si intravede, ma è come la finestra nella Lattaia di Vermeer, le sue luci si mescolano agli oggetti, ma non rendono questi succubi della loro esposizione: si librano ognuno secondo la loro definizione di usabilità alla costruzione del significato complessivo, in quell’attesa normalizzata, che comporta quella lettura, pausata, mentre la lattaia versa il latte e nella misura in cui evita di versarne troppo, o poco. Una metodica giustezza che costituisce il dialogo non corretto – ma spontaneo. Quando si indaga l’opera cercandovi un guizzo, un’emergenza, si scoprono i profili di questi luoghi, come insenature, frastagliate, frangenti del silenzio all’opera. Ed è pur semplice individuarvi i temi preparatori della traduzione, le domande su ciò che significa l’opera. Lo spazio entro il quale si situano queste riscritture del pensato, dell’atto di lettura, che ricordano tanto la pittura di genere immersa in uno spazio proprio, quanto un genere di storia, può essere ben l’oggetto teorico della riflessione, il colmo dell’eloquenza della lettura silenziosa.

|Tania L. GOBBETT [riscrittura 2002 - 2010]





Questo testo è stato prodotto in una domanda di dottorato di ricerca nel 2002 - narratività dove mi ero iscritta chiedendo nella pub. dei foglietti esterni di mettere il cognome della mia prozia a cui avrei dedicato il dottorato di ricerca, dandogli comunque C.I etc. - Tania L. Maffei era l'addressee - l'università o altri, misero un foglio sulla porta, con su l'accesso dalla primo all'ottavo - io risultavo due volte: seconda e nona - per un imbroglio a penna di qualche scocciatore ingrato all'intelligenza umana! Oggi credo che l'università sia ancora impunita. mentre avveniva questo l'Università di bologna riconosce le lauree magistrali del DAMS arte, ma l'ancora sordida politica concorrenziale sleale in giro continuerà a rinfacciare, a distorcere, la libertà e l'autonomia che sono il fondo costituzionale di alcuni validi principi.

salut à tous les amis avec coeur

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