venerdì 5 giugno 2009

bad boys and good boys_walking like an egiptian

Sono stata all'inaugurazione della mostra sugli scavi Schiapparelli che è aperta da ieri a Trento al Castello del Buon Consiglio, a proposito di calligrafia ne sono rimasta colpita - ma non saprei dire se il produttore del ductus coincide con quello della dictio ne se il testo sia esente di "partecipazione emotiva". L'organizzazione testuale sembra regolata da atteggiamenti descrittivi diversificati - da comparti relativi alla biografia "oggettiva" - aspetti iconografici che sembrano quelli di un atteggiamento emblematico come di novità / anomalia enunciazionale - un discorso "su la persona e la sua vita", come un - se ne potrebbe dire o direbbe che - che rimane sospeso come per riservarsi uno spazio per restare neutro, obiettivo e infine «equilibrato» nel valutarne il peso (in relazione a colui che commemora). Sorpresa, perché tutto è così fresco, leggibile, logico e non edulcorato da formule ripetitive - si c'è una convenzione ma tutto caso per caso, situazione per situazione con il dovuto rispetto. C'è persino una stele in cui una sacerdotessa sembra ricordare le sue lezioni di storia egiziana - di intercultura - sembra una maestra, ma il corpo assume una posizione che è quasi eccedente il profilo - e sotto, all'altezza delle sue gambe, seduta, una striscia dove riappare il discorso pronominale: la striscia, su di lei, che riguarda solo lei come persona e cosa se ne è detto.
Sorpresa e stregata forse, o ammaliata, perché qualche forma di amuleto l'ho compresa, per la sobrietà della collezione e l'umanità - un signore si era fatto seppellire in un tronco d'albero! era tarlato tanto quanto l'albero. Ci sono dei papiri, con la scrittura rossa e nera, dove veramente sembra più araba che egiziana per una inesperta come me. In effetti probabilmente i frammenti del libro dei morti riporta delle condizioni di soppesamento dell'anima e anche delle parole - non sono certa sulla distanza, cioè che l'impaginazione abbia dei criteri di prossemica e che la penna non sia invece relativa a chi fa la stesura, alla sua "pregnanza" - ma potrebbe anche essere, occorre vedere se queste "metriche" spaziose sono ravvisabili sul profilo pronominale e affettivo. Più c'è presenza di ex voto più c'è embeddment - incassamento - emboitement. Ma se ti lasci guidare a viso a viso trovi da una parte l'envelope, il quadrattino tipico di un'ekphrasis, che destino volendo, per eccellenza promette dinamica, ma potrebbe essere l'opposto; - comunque in un caso la descrizione di una coppia, in un bellissimo sarcofago lapideo (la faccia in stiacciato è di pietra calcarea e a chi sarà sfuggito il confronto con il sarcofato etrusco?), la descrizione biografica iniziale lascia il posto non solo alla descrizione delle azioni, dei fatti (cosa fece), ma quindi alla presentazione cerimoniale sulla stregua di una concezione culturale-geografica. Poi ce n'è uno di un poliziotto, attorno a questo la scalatura bianco e nera mi pare lascia il posto a una scalatura rosso bianca - immagino che il peso del colore abbia un senso - se non ricordo male Dorfles cita un giardino che appare come genesi dove la scalatura è bianco nera (ma pensate che Paolo Uccello ne Il diluvio Universale inserisce sempre questa di scalettatura cromatica, la coincidenza è curiosa quantomeno. Il discorso, come spazio semiotico potrebbe differenziarsi prima nell'essere un abbozzo, fisso, codificato di hypotiposis e poi una descrizione raffinata, dettagliata, che tende ad eccedere, che fa corpo con il ruolo del discorso pronunciato (quella che definiremmo appunto come una finestra potrebbe però essere più profonda e rituale, di accoglimento della famiglia, degli affetti); comunque la seconda certo merita alcuni tratti dell'inventio, l'ultima è sicuramente dedicatoria.
Ho deciso di tornare a dare una seconda sbirciata, volevo controllare alcuni problemi del testo e al ductus testuale - volto davvero alla lettura-ricordo - alla memoria intellettiva. Vorrei davvero lavorare sullo spazio della "pagina" come primo elemento-oggetto di ricerca, è quello in cui riscontro maggiormente una felicità armonica di strumenti culturali e semiotici.
Non avrei mai detto che mi avrebbe affascinato così - sono andava per via del gatto imbalsamato - visto che amo i gatti, ma sono rimasta davvero di stucco: lo scarabeo che fa la cacchina come grumo di un potenziale grado zero iconico - ! Mi ricorda un nomignolo che utilizzavo a scuola per definire una persona simpatica: cacchina pelosa di mosca rosa..., temo di aver definito così anche JF una volta, ma non è un insulto. Sembra che la semiotica francese sia invasata dall'Egitto mania e temo che li seguirò in cordata - è come se fossi rimasta a bocca aperta sul discorso della "pagina" - ma perché mi succede sempre così, anche a Urbino la prima volta che ho fatto una lettura, mi sono voltata verso le immagini che avevo portato, erano definitissime e grandissime, era come se le ri-vedessi veramente, come se fossero visibili realmente solo in quel momento in un certo modo.

Dopo la visita il solito pétit delire quasi incolmabile della fascinazione. Mi sono venute le barzellette. Quasi uno sfogo per divertissement - niente davvero di serio. I soliti classici internazionali dei tre o quattro buffi!
C'è un egiziano che ha chiesto ad un arabo un preventivo per la costruzione della sua casa a due piani. Arriva l'arabo con le misure perfette e l'egiziano si accorge che ha fatto il gabinetto sopra la cucina e gli dice sventolando il dito per aria "non sono mica il suo scarabeo"! e l'arabo incredulo tira fuori una ciabatta "starai mica scherzando"! in tanto lì c'è un cugino di suo zio, che abita in Israele e fa le vacanze "noi abbiamo diviso i due lavandini, così nessuno può lamentarsi" - di lì la carne e di là il resto; l'egiziano lo guarda strabigliato - nel mentre un cugino di terzo grado italiano che ha assistito alla scena, mumbling mumbling, rimbrotta "non te la farai mica in braghe per così poco!". I due lo guardano pensando uno se è pazzo e l'altro se ha le stravergole storte; l'arabo spiega come rimediare connettendo grossomodo i tubi. Ma c'è un evento imprevisto: alla fiera del mobile c'è uno stand di cinesi che adottano il feng shui letteralmente - l'egiziano va a chiedere se ha fatto bene a lamentarsi della posizione della cucina rispetto al bagno sopra - e il cinese "dipende da dove metti la testa"... ops, forse non ci capiranno più niente! Adoro l'ammobiliamento della casa. Ma non avevano detto che non bevevano?

senza contenuto

si parla di Rotchko?

allora lo conosciamo

senza contenuto, senza disegno
all'estreme conseguenze, senza vita
resta una finestra, non di meno
da dove passa qualche cosa
qualcosa che non è senza luce
anche se l'ultima sembra un'esalazione
qualcosa resta
senza volto, senza continuum?
grana sottile e comunque pesante abbastanza
di un genere del discorso
che spoglia le strategie
da se stesse, liberando ellitticamente
il significato

aura o patina
anima

a J. Fontanille - Impression Les levers de soleil de Marcel Proust

Cito questo pezzo per una questione o due: l'idea di continuo e di disegno sotto forma di hypotiposis - fissa, immagine dal basso valore cinetico, animata, resa schematicamente con un passaggio di elementi e oggetti che restano così ad un grado minimo della presa: si tratterebbe di frame aspettuale dove l'incoatività non di meno segna il punto della deriva; di negativo, in cui tuttavia non si confonde la decadenza con la rinascita; di corsa, all'assemblaggio di un immagine unitaria: fragments intermittents - vue totale. (Proust, 1954, p. 240)

Les levers de soleil sont un accompagnement des longs voyage en chemins de fer, comme les oeufs durs, les journaux illustrés, les jeux des cartes, les rivières où des barques s'évertuents sans avancer. A un moment où je dénombrais les pensée qui avaient rempli mon ésprit pendant les minutes précédentes, pour me rendre compte si je venais ou non de dormir (et où l'incertitude même qui me faisait poser la question était en train de me fournir une réponse affirmative), dans le carreau de la fenêtre, au-dessous d'un petit bois noir, je vis de nuages échancrés dont le doux duvet était d'un rose fixé, mort, qui ne changera plus, comme celui qui teinte les plumes de l'aile qui l'a assimilé au le pastel sur le quel l'a déposé la fantasie de peintre. Mais je sentais qu'au contraire cette couleur n'était ni inertie, ni caprice, mais neccessité et vie. Bientôt s'amoncelèrent derrière elle des réserves de lumière. Elle s'aviva, le ciel devint d'un incarnat que je tâchait, en collant mes eyeux à la vitre, de mieux voir, car je le santais en rapport avec l'existence profonde de la nature, mais la ligne du chemin de fer ayant changé en direction, le train tourna, la scène matinale fut remplacée dans le cadre de la fenêtre par un village nocturne aux toits bleus de clair de lune, avec un lavoir encrassé de la nacre opaline de la nuit, sous un ciel encore semé de toutes ses étoiles, et je me désolais d'avoir perdu ma bande de ciel rose quand je l'aperçus de nouveau, mais rouge cette fois, dans la fenêtre d'en face qu'elle abandonna è un deuxième coude de la voie ferrée; si bien que je passais mon temps à courir d'une fenêtre au lautre pour rapprocher, pour rentoiler les fragmentes intermittents et opposites de mon beau matin écarlate et versatile et en avoir une vue totale et en tableau continu.

J. Fontanille - Soma et Séma: agape - l'ékphrasis - la scène peinte


A l'ombre des jeunes filles en fleures, Marcel Proust (M.Proust, Paris, Gallimard, 1954, p. 229-230)

[...] Ce voyage, on le ferait sans dout aujourd'hui en automobile, croyant le rendre ainsi plus agréable. On verra qu'accompli de cette façon, il serait même, en un sens, plus vrais puisqu'on y suivrait de plus près, dans une intimite plus étroite, les diverses gradations selons lesquelles change la face de la terre. Mais enfin le plasir spécifique du voyage n'èst pas de pouvoir descendre en route et s'arrêter quand on est faitigué, c'est de rendre la difference entre le départ et l'arrivée non pas aussi insensible, mais aussi profonde qu'on peut, de la ressentir dans sa totalité, intacte, telle qu'elle était en nous quand notre imagination nous portait du lieu où nous vivions jusqu'au coeur d'un lieu désiré, en un bond qui nous semblait moin miraculeux parce qu'il franchissait une distance que parce qu'il unissait deux individualités distinctes de la terre, qu'il nous menait d'un nom à un autre nom, et que schématise (mieux qu'une promenade où, comme on débarque où l'on veut, il n'y a guère plus d'arrivée) l'opération mystérieuse qui s'accomplissait dans ces lieux spéciaux, les gares, lesquels ne font presque partie de la ville mais contiennent l'essence de sa personnalité de même que sur un écriteau signalétique elle portent son nom.
Mais en tout genre, notre temps a la manie de vouloir ne montrer les choses qu'avec ce qui les entoure dans la réalité, et par là de soupprimer l'essentiel, l'acte de l'esprit qui les isola d'elle. On " présente " un tableau au milieu de meubles, de bibelots, de tentures de la même époque, fade décor qu'excelle à composer dans les hôtels d'aujourd'hui la maîtresse de maison la plus ignorante la veille, passant maintenent ses journée dans les archives et les bibliothècques, et au milieu duquel le chef d'oeuvre qu'on regarde tout en dînant ne nous donne pas la même enivrante joie qu'on ne doit lui demander que dans une salle de musée, la quelle symbolise bien mieux, par sa nudité et son dépoillement de toutes particularités, les espaces intérieure où l'artiste s'est abstrait pour créer.
Malheuresement ces lieux merveilleux que sont les gares, d'où l'on part pour une destination éloignée, sont aussi des lieux tragiques car si le miracle s'y accomplit grâce auquel les pays qui n'avaient encore d'existence que dans notre pensée vont être ceux au milieu desquels nous vivrons, pour cette raison même il faut renoncer, au sortir de la salle d'atteinte, à retrouver tout à l'heure la chambre familière où l'on était il y a un instant encore. Il faut laisser toute espérance de rentrer coucher chez soi, une fois qu'on s'est décidé à pénétre dans l'antre empesté par où l'on accède au mystere, dans un de ces grands atelier vitrés, comme celui de Saintes-Lazare où j'aillais chercher le train de Belbec, et qui déployait au-dessus de la ville éventrée un des ces immenses ciels crus et gros des menaces amoncelées de drame, parails à certains ciels, d'une modernité presque parisienne, de Mantegna ou de Véronèse, et sous lequel ne pouvait s'accomplir que quelque acte terrible et solennel comme un départ en chemin de fer ou l'érection de la Croix.
[...]