sabato 22 maggio 2010

I MACCHIAIOLI

Il realismo discreto Yle vs éidos

Il 1861 consacra la capitale provvisoria del governo dello Stato Italiano a Firenze – che sarà protagonista della Esposizione Nazionale (Industriale ed Artistica). Sotto il Governo di Leopoldo II, granduca, si celebra un cauto liberalismo. Questo governo favorisce in parte il nascere spontaneo del cenacolo di pittori e intellettuali, scrittori e critici d’arte orientati alle tendenze liberiste ed anarchiche quale reazione al conservatorismo servile. Teorico del Café Michelangelo è Diego Martelli [1838-1896] la cui retorica di maniera, in parte, favorisce una scrittura attenta ai fenomeni artistici. È quindi Saverio Altamura a rappresentare l’Italia a Parigi nel 1855, all’Esposizione Universale, contribuendo così a riportare in Italia le novità, ma anche a rappresentare le innovazioni italiane costituendo un valido punto di incontro degli artisti francesi, come felice traduzione in campo pittorico di motivi culturali e di genere tra belle lettere e belle arti.”Fu l’Altamura, ci dice il Martelli, ‘che in modo sibillino e involuto cominciò a parlare di ton gris allora di moda a Parigi, e tutti a bocca aperta ad ascoltarlo prima e a seguirlo poi per la via indicata, aiutandosi con lo specchio nero che, decolorando il variopinto aspetto della natura, permette di afferrare più prontamente la totalità del chiaroscuro, la ‘macchia’” (Dario Durbé). Mentre la collezione pittorica di Anatoli Demidoff, nella villa medicea di Pratolino, esponeva nella sua raccolta aggiornata Delacroix, Ingres e Corot. A breve i soggiorni fiorentini di Ingres (che dovrebbe incontrare Bartolini), Manet e Degas (che frequentavano Hayez) permisero un dialogo formativo, ispiratore di nuovi criteri compositivi creando una nuova tensione innovatrice tra il Quattrocento italiano (il disegno stagliato di Botticelli e lo sfumato leonardesco) e il lessico cromatico della toscana risorgimentale.
I Macchiaioli attivi tra il 1855 e il 1867 sono capeggiati da Giovanni Fattori che ritenne il termine piuttosto come un piglio dai contorni antiaccademici mentre in realtà ne inaugurava lo sguardo rivolto alle lezioni di Leonardo sulla macchia ad incrostazione naturale – un valore non più semplicemente di decorazione pittorica di sfondo, ma, sul lezione di Leonardo, una lezione di pathos, di superficie, tanto da riversare su di esso aspetti memorabili, concettuali e teorici, di descrizione fenomenologia dei valori luministici.
Luce, colore e ombra – skiografia – sono infatti le leggi della teoria delle ombre importata dalla Francia, ma inaugurata per necessità ottiche dal mosaico italiano bizantino. Di ombre colorate infatti ne troviamo diverse a rendere comunicative le dimensioni dello spazio urbano dei Macchiaioli. Non più solo la forma, l’éidos, ma il colore, a dare sostanza alla gradualità della profondità, sulla scorta leonardesca. Se da un lato abbiamo sottolineato la matrice musiva (del mosaico) utile a dare corpo a piccole “masse compatte e solide” di colore concreto, è la loro combinazione, il preciso contatto a determinarne il valore tonale, la luminosità, il contrasto cromatico che offre intensità e peso. L’idea di dipingere, d’altra parte, secondo varie “temperature” luminose, di toni caldi e freddi, era già artificio retorico visivo nell’Hayez de Il Bacio, ora restituendo un segno abbreviato e tremulo, sfrangiato nei contorni, tanto da dare alle figure un aspetto vibrante come nel controluce che ne traduce l’atmosfera. Le architetture (tra I e IV stile) cromatiche e luministiche, e non vogliamo qui esaurirne il tema complesso già riconfigurato come contesto tematico lirico, del genere di storia, intensificano la componente poetica a tutto vantaggio della concentrazione in piccole tele dei soggetti. Qui dove nasce il salto di genere, matura la contrapposizione generazionale, il superamento dell’effige “di storia” per una ricerca pittorica non più restituita sulle ampiezze e sulla descrizione, ma sulla direzione di ricerca della discrezione. I contorni sfocati, attenuati, come per acuità visiva, oculare, sono dati nella concezione veristica: una natura che non ha contorni netti, icastici (stagliati e quasi staccati dallo sfondo), sulla scorta della tarsia, quanto rivolti ad integrare l’immagine nel suo contesto atmosferico, su ben consolidate soglie leonardesche. Saranno le riscoperte tavolette di un Simone Martini, piccoli, paesaggi senesi che, strutturati simbolicamente, custodiscono micro racconti fantastici, ad attirare il consenso dei pittori più colti. Il volume ridotto (per ricondurci criticamente, sebbene teticamente a posteriori, alla riduzione fenomenologia di un Husserl) adotta piccole superfici di colore uniformi accessibili ad uno sguardo ravvicinato data la misura delle opere. Paiono tacche, plaghe di colori saturi che si sovrappongono gradatamente sugli sfondi, talvolta spenti, come concreti dettagli adibiti a supporto del colore. Eppure, se geometrici, in quanto rappresentano puri piani prospettici che denotano la profondità con sicurezza, aspirano ad essere placche cartografiche, piani o livelli. Ciò che rimane delle mezze tinte, fa da legante (da agglutinante, come espressione locale), luogo in cui depositare una memoria visuale, costruita a macchie, ma di ordine essenziale, ricordando appunto legno, mattone, intonaci e, grossomodo, fronde. Restituiscono, di nuovo, scarni elementi compositivi. Gli esempi studiati sono dunque eccellenti per il rapporto traduttivo, per l’assunto veristico, per le intime sonorità rivelatrici di un paesaggio vissuto.

Raffaello Sernesi [1838 – 1866]. Si nota delle sue opere il volume ridotto, a piccole superfici di colori uniformi (secondo una caratteristica omogeneità) e geometrizzanti, con uno scalare declivio di piani verso pacate profondità.

Giovanni Fattori, nasce come pittore di “storia”, ma è una storia di cronaca, trattenuta con lo sguardo partecipe. Contribuisce alla poetica verista. Il concorso del 1859 offerto dal Governo a tutti i pittori e scultori in grado di illustrare le grandi vicende italiane, lo porterà ad esporre temi come quello del Campo italiano dopo la battaglia di Magenta: il supporto è narrativo, una fotografia, si direbbe, colta sull’istante, discostata dagli eventi della grande cronaca, come a partecipare nel retroscena, dietro le quinte, con un attenzione a restituire il morale. L’aspetto umano degno di rappresentazione è quello dell’attesa, della vigilanza sul campo nei momenti di pausa, di sosta o di tregua: gli permette di dare voce agli angoli riposti, al respiro delle situazioni di un esercito, senza porre etichette, giudizi o proclami. La realtà, così, è ciò che l’opera afferma nel momento ripreso. Il Risorgimento italiano è vissuto con lo sguardo di un Pisanello, per il linguaggio cortese, di un Paolo Uccello (Battaglia di San Romano), con un effetto vividissimo di presenza. I toni cromatici sono l’effige, il simbolo di appartenenza, ma anche una sorta di naturale linguaggio esprimibile.
La rotonda di Palmieri (si suggerisce un parallelo con il Thomas Mann de La Montagna Incantata) I riferimenti senesi non diminuiscono ma si accentuano nella scelta di formati, ma non solo, come per incastonature possibili, il panorama intagliato quasi dai tendaggi ricorda la Maestà, sui palchi di Siena. La stesura calligrafica del formato sembra tuttavia impreziosita da improvvisi dettagli luministici. È a Livorno nel 1866. Il mare visto come rifugio della famiglia dell’artista è l’occasione del quadro. Toni infuocati dal meriggio assolta tolgono al paesaggio ogni accessorietà. La pittura si schiarisce più nei colori che nei soggetti, visti come stagliati di schiena eccetto forse la protagonista del quadro. Come a vibranti eccedenze pittoriche, speranze espresse da quella luce che avrebbe dovuto essere terapia per la malattia della moglie di Fattori, basta a sfaldare quella tensione lineare come si trattasse di un disegno morbido, litografico. Il formato è volutamente ridotto, come abbiamo detto, nella compostezza della misura portatile che ricorda le icone (12x30 cm) assume la valenza di un ricordo telegrafico, orizzontale, sfrondato, senza venir meno al segno e al dettaglio privato dell’opera. Il testo ricorda una sorta di “partitura cromatica”, à plat, realistica. Insistendo sui piani ne individua l’orizzonte come un flebile contatto di superfici scandito aritmicamente da figure raggruppate attorno ad una di esse stante. L’annotazione affettiva, casuale in parte, della situazione è eloquente: manca l’analiticità delle opere del concorso, non c’è quella messa a fuoco di volti o di dettagli, favorendo un programma di “misura” coerente con la presenza dei disegni preparatori.

Gli altri protagonisti: Giuseppe Abbati [1836 – 1868] - Telemaco Signorini [1825 – 1901]
Questi due artisti si incontrano spesso nella tenuta di Castiglioncello di Diego Martelli – la vocazione intellettuale e di ricerca favorisce un chiarimento rispetto all’opera: la pennellata secca, illustrativa, asciutta, il segno conciso, rapido e telegrafico, fanno pensare al modo di disegnare tipico della litografia, rapida esecuzione, focalizzazione di retorica espressiva, immediatezza – sulla tela, riportata alla tecnica tradizionale dell’olio, sembra potersi riconoscere un’intenzione pittorica che riporta in luce la tecnica a giornate, contesto questo in cui l’artista fissa il suo proprio canone descrittivo.

Giuseppe Abbati ne La baia di Caletta presso Castiglioncello, 1861-63, olio su tela, di 21x66 cm ora conservato a Savona, in una collezione privata – è svolto complessivamente sulla ricerca di un impaginato arioso, ne costituisce il linguaggio estetico l’aspetto artistico della restituzione. Una prospettiva naturale, composita e en plain air, finita in studio, probabilmente, per i toni omogenei di alcuni elementi (acqua), pone una prospettiva di ottica da campo lungo ora costantemente studiata per gli effetti generali della composizione: si distinguono i piani con le increspature dorate del sole sparse sul terriccio, con varianti di stesura non imitativi, per placche materiche di colore.

Telemaco Signorini, Pascoli a Castiglioncello, cm 31x76, Montecatini Terme, coll. Privata.
Anche in Signorini, il colore è riflessione: il segno partecipa dell’animazione dei soggetti rappresentati, quasi a coglierne il respiro, mentre le tonalità sulla scorta di Leonardo, sono della tavolozza più varia, a contrasto, con scarti di toni che tornano sul segno per scandire i limiti di campo. Se risulta lo sfondo sotto tono è perché sulla distanza l’occhio non ha presa nel dettaglio vivido. L’equilibrio della situazione è profondamente compositivo e non dispersivo di quello sforzo globale mimato dalla pastorella (in realtà in termini ottici e per semplificare, si potrebbe parlare di una sorta di sforzo visivo, panoramico, non di meno poetico – realistico, tanto da richiamare il ben noto sistema della veduta).

Silvestro lega [1826 – 1895] Lo stile paesaggistico di Lega può essere definito “paesistico” per gli evidenti riferimenti alla vita del tempo, alla realtà vissuta si confronta con la corrente realista, i temi letterari, inoltre, sono sviluppati accostando anche in questo caso la realtà quotidiana della famiglia. Una giornata sotto il pergolato è il pretesto mondano e famigliare trascritto con intenti composti secondo una sorta di revisione dei generi, una applicazione delle regole compositive per mettere in luce l’inventività della griglia della veduta. Il risultato è di saggio in cui compostezza e precisionismo architettonico si confondono con i temi civili. L’effetto di partecipazione è motivata dalla “regia” di sguardi tanto da risultare una silenziosa presenza di soggetti. È poi il dispiegamento della teoria delle ombre a restituire i rimandi all’arte applicata, tra ombre portate ed effetti luministici cari alla tradizione pittorica settecentesca. I gesti minimi non si disperdono in una somma di dettagli ed assumono il valore il valore di una sorta di discorso simbolico tra figure.

LA SCAPIGLIATURA LOMBARDA
L’eccezionalità della pittura sembra una risposta all’ecclettismo internazionale del contesto culturale lombardo prefigurando i generi dell’Impressionismo italiano. I colori e le luci sono contemporaneamente costruiti sul sicuro impaginato e l’immediata leggibilità, pur nell’inafferrabilità, nella densa e frastagliata cornice dei valori pittorici di superficie. Una pittura che sembra data come lo zucchero soffiato, esprime una dolcezza barocca mentre il tratteggio sempre più rapido e mosso ne costituisce l’elemento costruttivo. La pittura degli scapigliati è giocata forse sul rinvio provinciale: capigliature appunto, ora messe in rima con il trattamento cromatico dei tessuti ne rivelano l’intima coerenza. Un segno vibrante e virtuoso, emerge come raccordo storicistico di alta cultura: solo l’edera, in primo piano, scandisce e incolonna il ritmo ascensionale dell’immagine di Tranquillo Cremona, dove con L’Edera, del 1878 (132,5x100 cm (Torino, Galleria d’Arte Moderna) mostra di rappresentare la trama del racconto pittorico. Oggi potremmo leggere queste opere come sfide alla geometria euclidea – si tratta di modulare la luce in contorni non più lineari, di uno spazio curvo. Ne costituisce il congegno la teatralità, l’ariosità e la gestualità trattenuta. Lo stesso identico risultato, criticamente, lo si riscontra nelle opere di Daniele Ranzoni dove nei Figli dei principi Trubezkoy del 1873-1874, l’opera di un formato medio, per la ritrattistica (116x138cm), mette in luce una posa fotografica, in cui l’immediatezza e la cura dei dettagli traducono una sperimentazione dei valori pittorici.

EUGENE DELACROIX

[Charenton-Saint-Mauice, Parigi, 1798 – Parigi 1863]
Di estrazione alto borghese, il padre fu ministro e ambasciatore. La formazione di D. è stata conseguita attraverso la collaborazione in ‘studio’, alla stregua della formazione umanistica quattrocentesca, sui modelli di Guérin. Tra i suoi amici – colleghi più stretti ci fu Géricault per il quale posò per la Zattera della Medusa e Gros noto per i suoi quadri di ampio formato con scene di battaglie sul filone storico-narrativo delle imprese napoleoniche.
I suoi studi sono di tipo classico-manierista: Michelangelo, Rubens, artisti connessi alle più importanti corti del loro tempo, che vennero copiati e riprodotti. Tra le tecniche che l’artista ha studiato spiccano gli studi in incisione e acquarello in quanto mediati da forme di istruzione da cui possiamo in parte dedurre la capacità illustrativa alla cui fonte stanno testi letterari La barca di dante (Parigi, Louvre). In continuità con gli aspetti di cronaca storica di Géricault, D. realizza nel 1824 Il massacro di Scio. Nel 1827 con La morte di Sardanapalo D. sembra restituire una sorta di combusta e frenetica resa, in cui i colori sempre più brucianti e l’insieme celebrativo simbolico sembra voler restituire con asprezza ironica la sorte del regime napoleonico. Dal punto di vista compositivo, questo avvicinamento sempre più dichiarato alla maniera, lo porta a riprendere il tema della diagonale in senso scenografico, in stretta relazione con la dinamica di una scena. Per questa coraggiosa progressione verso il proscenio, verso il fruitore, viene citato Rubens per lo sfruttamento dinamico della diagonale, ma possiamo dire che l’artista dipinse la battaglia di Anghiari e restituì ai posteri un dinamismo così acceso da apparire venato di una matrice barocca. La libertà che guida il popolo (Parigi, Louvre), sembra trasposizione in chiave metodologica e filologica della Nike: una vittoria tuttavia apparentemente non certa, una sanzione non del tutto raggiunta. Il modello potrebbe ben essere Géricault, visto lo scambio tra artisti – si notano una serie di figure pressoché uguali in cui le variazioni sono suggerite da accessori che ricompongono lo status sociale. Stride, quasi, la figura sotto la “libertà” per la posizione di implorazione, tuttavia interpretabile come giuramento di fedeltà sul modello urbinate della Pala di Montefeltro, accesa da una cocente passione per i valori democratico-rivoluzionari.
Lo studium: si può dire di quest’ultima opera, che alla stregua del nostro David, la geometria sia totalmente asservita a funzioni compositive più che narrative. Tuttavia la ripresa insolita del punto di vista crea uno scarto scenico, rimette in discussione la fissità del testo non strutturato in modo didascalico e pedante, forse anche a causa del tema, che sembra studiato attraverso una riflessione “partecipata” degli artisti all’atmosfera dei moti rivoluzionari, più che tratto da una risorsa letteraria: il genio non è più solo marcato da l’ésprit de géometrie ma finalmente da una tensione tra gusto e morale ora rese pubbliche che mirano ad una nuova concessione alla finezza, alla sottigliezza dello spirito.
Il viaggio in Marocco: 1832 – il ritorno attraverso la Spagna lo pone di fronte all’opera di Goya. Tuttavia l’esotismo delle campagne francesi sulla costa mediterranea lo portano a tracciare il percorso della Legione Francese ricomponendone i contenuti in un insieme caramelloso e dolciastro, agro e talvolta assopito, dei sapori marocco-tunisini. Stupisce la meticolosa indagine di suppellettili e superfici, ora ricostruite con ben altri modelli come quelli del Tintoretto dove un popolo di derelitti o finti tali, sembra comporre in modo inedito scene di diversa convivialità. L’interesse etnografico di D. non si spense e dette prove di lettura enciclopedica, tal volta al limite, quasi per saggiare contenuti così estranei alla propria cultura, da non poterli trasporre senza un senso di vertigine quasi scollati da un contesto reale. Così l’ordine cromatico, la composizione, così i dettagli esageratamente a fuoco, come colti da un esigenza ormai diaristica e sempre più da pagina di viaggio, sembrano restituiti su una tavolozza di appunti densi di momenti minimali, riprese di azioni, aspetti cinetici, decorazioni, stili architettonici d’interni che verranno restituiti alla stregua del cartone leonardesco al rientro in patria.

L’incontro di cavalieri Maori –1833, Baltimora, The Walters Gallery
Donne d’Algeri – 1834, Parigi, Louvre
Festa di nozze ebraiche in Marocco – 1839, Parigi Louvre

La formazione dal vero, e la ripresa rapida con l’acquarello riempiono vivacemente i taccuini del Marocco. Quest’esperienza così viva e passionale, a contatto con la lividezza del reale, vissuta coraggiosamente nel contatto con l’altro da sé, sarà il modello di una diversa trasposizione dell’antico.

Medea furiosa – 1838, Lilla, Mus. des Beaux-Arts
Giustzia di Traiano – 1840, Rouen, Mus. des Beaux arts
Morte di Marco Aurelio – 1841, Lione, Mus. des Beaux arts

Imprese decorative di grande formato popolano le sale della sala del re a Palazzo Borbone (1833-38) a giudicare dalle date però viene da pensare che, come Giotto, D. facesse i disegni che faceva eseguire ad allievi, mentre era in viaggio, non saprei ma potrebbe … dovremmo fare una ricerca iconografica un po’ più densa.

Successive, degli anni ’40 e ‘60 sono invece le opere decorative di genere sacro: Cappella dei Santi Angeli a Saint Suplice. Circa duemila opere, amicizie letterarie, la fama e poi la scrittura di un proprio Journal ci restituisce un Delacroix vivacemente interessato ad ogni aspetto dell’arte, critico, consapevolmente moderno, un artista “freddamente deliberato a cercare i mezzi di esprimere la passione nella maniera più visibile”: Baudelaire.

Confronti: Géricault, Constable, Turner, Friedrich