venerdì 21 agosto 2009

set sides stories - i nuovi sguardi di Simone Annichiarico in tv

Grazie per i tuoi affascinanti paesaggi delle meraviglie, per la tua stanza delle meraviglie che sembra uno studiolo - credo che fai innamorare la gente dell'Italia - e riscoprire di avere un cuore per le cose belle e sincere!
Non demordere!

Forse la ricerca potrebbe darci risposte e tentare di proporre altre soluzioni sulla depurazione del Mediterraneo e sarebbe rispettosa verso la tutela dell'ambiente come patrimonio collettivo: un unione dei paesi del Mediteraneo potrebbe essere utile anche per questo genere di progetti oltre che per garantire stabilità e pace in altri ordini di situazioni politiche e commerciali.
Scusate la materialità del discorso ma è da qualche anno che sto riscrivendo una voce denigrata della cultura romana - "utilitarismo" in storia dell'arte, forse anche perché da Baxandall, ricercatore Inglese, che ha studiato a Cambridge e poi ha studiato l'architettura e l'arte romanica (Giotto e gli umanisti), ha scritto anche un libro meno letterario sulle tipologie di invenzioni come aspetto culturale - Ammiro l'architettura romana, non so quanto debba all'Egitto e credo ancora che ci sia tanto da riscoprire e ricollegare al passato, fuori dalle sole logiche di potere, per amare il Mediterraneo nel senso pragmatico ed estetico che conosciamo. Ma dato che l'unesco ha riconosciuto le montagne, credete che sarà fatto qualcosa per i nostri mari? Io lo spero tantissimo!
Trovo che sia meraviglioso che Simone Annichiarico, figlio d'arte, ci porti sui set dei fim - che abbia il coraggio di restituire l'anima riflessiva di qualche ambiente, come potrebbe fare disvelando un corallo, una stella marina, un rilevo architettonico e scoprire che qualcosa sfiora l'anima - tra cultura e natura - del paesaggio e del sé. Poi adoro letteralmente quelle passeggiate nella città, quasi scoprendo che nel film c'era forse l'anagramma del //la7 dipinto vicino a uno dei negozi - non so se ho visto bene...ne Gli amanti.
Se riscoprendo il Neorealismo si potesse influenzare in qualche modo il desiderio di chi ama il cinema e vuole proteggerne alcuni soggetti dall'inquinamento barbarico, allora sono con te - con lui - perché è un sentimento, non solo un'emozione, una passione sincera. E ti ringrazio di cuore per ogni spunto ed esempio di navigazione possibile.

lunedì 17 agosto 2009

acque chiare e shallow waters

Forse devo rivedere una cosa sul thesaurus possibile di Calvino alle prese con il Fare un film di Fellini, da cui forse prende spunto per scrivere Se una notte d'inverno un viaggiatore o il più piccolo semiologico per quelli di Limoges (NAS) Comment J'ai écrit un de mes romans, ma non ne sono certa che si tratti di guardare sempre nell'acqua profonda, oceanica per trovare le cose che, senso comune o meno, dovrebbero dare risposte. O che sia un piccolo gorgo, o un movimento sur place, come quando una persona riflette in una stanza, rimuginando apertamente. Ho messo shallow - temendo poi che avesse un sentore di bassezza o di superficialità - ma poi si è aperta la finestra delle allusioni che amo di più - trobadoriche sensazioni - come quando raggiungi immediatamente qualcosa che ti arriva alla mente, alla vista, e poi ci sono un sacco di altre cose che non toccheresti mai perché, chissà cosa sono. Shallow - raggiungibili in un occhiata, o che si presentano alla vista come certe reveries, certo il tono potrebbe essere impressionistico, come certe coltivazioni di Monet - serie indefinite di Ninfee - ma quello sguardo raggiunge il velo della città, il suo lucido scandirsi di luci e ombre non è forse talvolta un po' inquieto?


riapparsi da > appunti_comments blog di/a Simone Annichiarico
Ops: trouvé - Italo Calvino, 1980, "Autobiographie d'un spectateur" in Fare un film, di Federco Fellini, Torino, Einaudi. Non so perché mi è rimasto così tanto impresso - era un Calvino diverso che cercava nelle "shallow water" e forse si è immaginato uno sguardo diverso, un thesaurus soggettivo degno di Ceresy-La-Salle. Ma non è una biologia della città - insomma semmai sarà una fisiologia tra arte e disegno letto a distanza - come un progetto visivo: un corpo onirico, fantastico, sillabico appunto! Telepate, pieno di affetto e affezioni - disciolti poeticamente - lucidamente come in 8 e mezzo, no? Comunque sei un tipe: non te ne vai mi ca via vero? Ciao. Ta

ps: non ho ancora capito se si tratta del Settizonio o del Settisoglio - comincio ad incuriosirmi (l'incipit passa per Lucia Nuti, un bel libro che dà l'idea di città senza cartografia, proprio come una città che deve essere descritta).

Oggi invece ho visto Ok Nerone e il bello è che mentre finisco di trattare un piccolo frammento su Barthes (idiografia e camera lucida/chiara sono termini suoi usati in Communicatio 8 dove compare anche il Bond di Eco) - passo in rassegna qualche immagine scannerizzata da La Nature del 1893 dove c'è l'hémerographique citato, o almeno una versione abbastanza carina, con una cornice a chassis - la cosa buffa è che nel film deve essere proprio affumicato il vetro con cui Nerone ispeziona i seni delle donne che accompagnano Pompea - non riesco a cogliere il cortocircuito tra sogno e motivo della camera lucida se non con questa concatenazione di aspetti onirici, prossemici, sull'orlo del gioco tra fotografia e sensibile sublimato dalle peripezie. Non so se è giusto citare gli italiani a Parigi come Boldini e de Nissis ma mi incuriosisce anche pensare ai Macchiaioli alla lenes gris che aveva la stessa funzione della camera chiara per questa possbilità di creare un effetto di bassorilievo, poi rintracciabile, o almeno specialmente in Ansel Adams per il lavoro sul cielo e non di meno, tornando invece in clima pre-impressionista, la troviamo usata da Cozens e Constable. Non tralascerei l'idea che Kant la usasse nei suoi studi sulla meterologia e così Peirce, il semiotico americano - più che di un valore medio, si tratta della schematizzazione, come, non voglio esagerare e mi scuso, negli altri chiastici giochi visti nei film (Gli amanti, con Mastroianni). Immagino il gioco con il cognome e lo trovo intessuto di aspirazioni, respiri, sensi possibili che stano alla temporalità come al tutte le forme di ipotiposis - maneggio accurato di scelte: complimenti - anzi no, grazie! Poi è ovvio par di veder scrivere, nelle tue scelte, come se si formassero mentre scorrono giornate in una sorta di attesa su cosa troverai, o come metterai le cose a battaglia, quasi saggiassi un italianissimo Elogio dell'ombra di Tanizaki citando al posto dei testi (eccetto I. Calvino si intende - de Il seno nudo) le mosse degli attori. Il saluto-gesto canonico, di tuo papà, W.Chiari che dice all'attrice di concentrare, di sintetizzare, è già gesto scenico, rinvio, così che la pesantezza e la leggerezza si trovano sul filo di lana della luce (tecnica prospettica che citi) che torna al suo percorso, risvegliandosi o rotolando con improvvisi guizzi. Forse, scusa se mi rivolgo, direttamente, a te Simone A., impressionata e touché, forse perché è un po' che non mi trovo più con un amico semiologo a giocare a rileggere qualche categoria antropomorfa, qualche forma divertente di iconizzazione (e che noia magari, detto così, ma è un'altro discorso che non mollo per un certo gusto delle cose) - a trovarne altri soggetti così cloisonnée da essere incastonamenti prospettici, dovresti farne un libro-film per la tv - non ho mai visto nulla del genere che riesce cognitivamente ad essere divertente e autoriflessivo - è la mia testa a confondersi immagino visto che il mio massimo è Otto e mezzo - come se irrimediabilmente ci trovo, nel Neorealismo, un sistema cinematografico a perla, a concrezione, barocco e tortile - e non riesco a togliermi quella sensazione di mal di mare come quando stai camminando su un labirinto. Tra notitia della città, come dice Lucia Nuti e tessera musiva di cui è intessuta la ricerca di questi film che citi - una sorta di storia del cinema sulla città - è un buonissmo punto di partenza - per pellegrini e per connoisseurs.

martedì 4 agosto 2009

per un dottorato in semiotica dell'arte a distanza

Per un dottorato di semiotica - sulla storia della libertà di ricerca

> un tema dedicato agli studi
SEMIOTICA INTERPRETATIVA e SEMIOTICA GENERATIVA
a confronto sulle problematiche del VISIVO
Proposal_abstract


1. Le origini del confronto
2. Perché della possibilità di punti di vista diversi
3. La società riflessa negli oggetti


Il Novecento sembra aprirsi con una sfida storica in cui, per ciò che concerne i risultati, non ci sono né vinti né vincitori, ma una scienza in divenire. Penso ad una scienza per poterne privilegiare, in linea di massima, gli oggetti: si tratta dell’ambito problematico del visivo che per quanto ne sappiamo è sempre stato oggetto di studio con diversi approcci più o meno finalizzati a rinverdire metodologie di scoperta o soluzioni a problemi reali. Per una scienza del visivo, dunque, non è veramente importante come con esattezza, passo dopo passo, è stata realizzata l’opera ma, credo, quali siano in generale i modi di leggerla. Sono questi in fatti i luoghi di attracco cui partecipano questi due orientamenti semiotici.
Ma ecco qualche concetto. Sulle file della filosofia del linguaggio Umberto Eco scopre l’opportunità di una rivisitazione accurata delle soglie trasmesse ai posteri di una possibile storia dell’iconismo, termine con il quale si designa l’ambito specifico che vorremmo studiare. I primi gesti operativi su tale oggetto sono stati svolti in Opera aperta negli anni ’69-’70, sulle linee percorse attorno all’idea che l’opera avesse una sua costruzione metaforica e in quanto tale fosse interpretabile. Muovendo dagli anni ’70 in poi su quelle che vennero percorse come modalità di produzione segnica, tale costrutto implicito venne articolato sia nelle distinzioni più radicali delle ratio graduate con cui distinguiamo modalità stilistiche (tra le quali ‘tracce’ e ‘campioni’) e le ‘invenzioni’ vere e proprie, ma allo stesso rango di difficoltà interpretativa, per via della ricostruzione dell’oggetto|soggetto impressore, le ‘impronte’. Tuttavia è con il percorso filosofico che si ha accesso a queste soglie e il “segno come differenza”, in Semiotica e filosofia del linguaggio apre alla necessità di articolare le reciproche forme e sostanze dell’espressione e del contenuto, concependo un raccordo, una generale ricapitolazione ipotetica, dello strutturalismo hjelmsleviano sull’istanza interpretativa di origine americana e pragmatica che vede in Charles Sanders Peirce il suo padre fondatore. La distinzione del segno in modalità attraverso le quali conosciamo il segno sono per il semiotico americano “aspettualizzabili” incrociando alcuni termini di base, in «icona, indice, simbolo». “Un segno”, risolvendo così il tratto della somiglianza, “sta per il suo antecedente per alcuni aspetti e capacità”. Peirce mise in rilievo la necessità sia speculativa, credo immanente, della comprensione, che quella della sua produttività in termini di risoluzione, deittica se vogliamo, alla stregua della risoluzione greimasiana, generativa dell’École de Paris. In effetti, la profondità istituita come processo, quasi di comprensione, dei dati della significazione nel processo generativo, garantiva entrambe queste due facoltà: da un lato la convocazione restituisce la sintassi profonda del senso, dall’altro la conversione garantisce della sua adeguazione sul piano figurativo e semantico, in vista dell’enunciazione vera e propria.
Tuttavia per certi aspetti la semiotica generativa ritiene non sia osservabile il segno, immediatamente è così chiarita la necessità di poter contribuire all’intelligibilità di ciò che avviene sotto la superficie del significante in termini di relazioni strutturalmente orientate. I processi abduttivi e inferenziali con i quali comprendiamo e interpretiamo i segni, sono perciò possibili, ma in un certo senso necessitano di una serie di operazioni di riduzione agli elementi e aspetti minimi che restituiscono la rappresentazione del significato nella sua generatività. Eco, in Kant e l’orintorinco, sostiene infine la non incompatibilità delle analisi: si tratta di un di più di senso, di una comprensione qualitativa, non di una mera disposizione di dati lungo questa o quella strategia analitica. Tuttavia le due modalità, le due epistème, interdefiniscono le proprie metodologie a partire da porzioni diverse degli universi di senso. Il dizionario di Greimas e Courtés, del 1979 (tr.it. 1986) fissa in quattro tappe il percorso della teoria al fine di scandagliarne i livelli e garantire la coerenza. Per Peirce, questo processo, appare nel Memoir, dove discute delle più piccole unità di significato possibili a cui giungere, in un certo senso, per meglio gestire i dati, la loro analisi, gli strumenti che ne favoriscono l’accesso; inoltre parla di una sorta di quadrato sempre più piccolo, che serve a ridurre il molteplice in vista di una regola minima sufficientemente generale. Tanto che, leggendo i risultati di una sorta di ibrido tra interpretazione e generazione, nel testo di Jacques Fontanille, Tensivité et signification, alla voce «schema» e al suo modello canonile, mi venne spontaneo di correlare questi approcci sostenendo che forse, da un punto di vista interattivo, fosse possibile leggervi le medesime conseguenze di osservanza del principio empirico dell’analisi: il testo, forse meglio, le forme di testualità possiedono delle strutture di significazione che sono intelligibili e dunque visibili attraverso il loro significante. In questi ultimi decenni, il testo di Eco succitato è del 1997, quello di Fontanille del 1998, l’orientamento più costruttivo è stato quello di cercare più le somiglianze, i contributi positivi, le capacità euristiche, piuttosto che il contrario. L’icona per Eco è e rimane termine complesso quando possiede un valore iponimico [ipoicona – cit. in VISIO] che la configura come categoria e solo in tal senso si ritiene la sua possibilità di risolvere in modo appropriato la correlazione intersoggettiva dei subcontrari. Le origini aristoteliche in Eco e in Greimas, sembrano dunque, come dicevo più sopra, ad una logica passo passo, set by step, una diversa logica per opposizioni, sulla quale, successivamente si apre in maniera interessante il concetto di “sasie” e di esperienza. Vi è un soggetto che partecipa della distribuzione del contenuto e che attraverso tale esperienza condivide perdite e acquisizioni in termini di modalizzazioni dei valori e soprattutto nei termini aspettuali, circa la prossimità e distanza da tali forme della significazione. La sfida sembra doversi svolgere tra la graduale acquisizione della competenza del soggetto e l’orientamento valoriale che in seguito, ne realizzerà alcune modalità in modo regolato alla stregua dell’abito logico finale. Queste negoziazioni non sono asettiche, ma sono veri e propri luoghi di trasformazione dei soggetti e degli oggetti di valore. Ecco come la logica dell’esperienza nella sua componente enunciazionale interviene, da un lato, ristabilendo una sorta di ritmica di partecipatività: la logica della sfida, del duello, contraddittoria per eccellenza, si dispone sulla scelta dei soggetti rispetto alle proprie abilità di riconoscimento degli oggetti di valore o se vogliamo delle categorie da contemplare. Qui si risolvono a mio avviso entrambe le semiotiche: un fondamento etico volto all’estetica e alla sanzione come morale in atto.
Per quanto gli approcci sembrano analizzare momenti diversi, campionamenti appartenenti a diversi tipi d’efficacia, si sono posti entrambi il compito di ricongiungersi negli obiettivi dell’analisi del visivo attraverso strumenti teorici interdefiniti. Nel 1984, Greimas rende pubblico il testo in cui procrastina la fine di un limite nei confronti del visivo ed interpella i cultori della materia e gli scienziati, perché si verifichino le ipotesi su testi visivi concreti “i nostri selvaggi”. Il segno (ora metaforicamente) di un cambiamento epistemologico tuttavia non deve essere azzardato. In realtà sono le nozioni di semi-simbolico, interdefinite a partire dalle semiotiche multiplanari che spinsero in tale direzione di ricerca. Il significante plastico appare dunque sotto l’aspetto delle sue relazioni alla stregua del suo significato. In questi termini, anche se meno radicali, già operava nel 1966 Jakobson, portando a termine alcune analisi sulla trasposizione in tema di traduzione intersemiotica, al cui interno è ravvisabile, se non per il concetto di tratto differenziale distintivo, lo stesso tipo di procedure. È in fatti Hjielmslev (Zinna, A., Versus, 43) a risalire al problema immanente, dal punto di vista filosofico ed estetico oltre che linguistico tracciando così una diversa e nuova soglia di lettura per “figure” minime del contenuto. Ecco dunque che negli anni ’90 un fervente interesse di ricerca attorno al semisimbolico trova la sua ragione. Da un lato le ratio saranno ridefinibili in gradienti permettendo alla semiotica interpretativa un’avvicinamento progressivo ai dati della percezione. Dall’altro la semiotica generativa si trova sul campo l’onere di un’enorme quantità di termini tra astratto e concreto da interdefinire per garantire la coerenza della disciplina.
Nel 1986 gli studiosi di tutta l’Europa che si occupano del visivo collaborarono alla riscrittura, per quelli della Hachette, dell’ambito che oltre al visivo è oggi conosciuto in parte come semiotica del sensibile e che deve a questi primi urgenti rivolgimenti disciplinari il proprio successivo sviluppo. Ma torniamo ai luoghi: l’École de Paris si è articolata in modo talmente ricco e vario da rendere difficile la sua sintetica ricostruzione. Dopo i risultati teorici di Roland Barthes su l’Ovvio e l’ottuso, i Miti d’oggi, Camera chiara, la semiotica si è volta ad una concezione scientifica mirante ad una maggiore efficacia delle sue procedure di esplicitazione. Termini come “figurale”, “figurativo” e “figura”, appaiono oggi come afferenti alle semiotiche pluriplanari tanto quanto le loro origini linguistiche e in certi aspetti ne recuperano, per fare un esempio, alcune forme indicali (anafora, catafora | anaforici, deittici); la direzione dell’analisi quindi non esclude a priori il soggetto, ma minimizza l’ingerenza idiosincratica in vista della migliore e più efficace possibile adesione ai dati. Uno degli altri termini paradigmatici che oggi si trova a competere tra queste due strategie esplicative è il termine «sincretico». U. Eco ne parlò, quasi male, nelle Cinque lezioni morali asserendo di un banale e strumentale uso, praticamente monosemico, da parte del fascismo. Tuttavia in testi, di un certo rigore credo, sia scientifici, che atti alla ricerca, questo problema sembra ricoprire uno dei maggiori ambiti del visivo: differenziare le immagini, coglierne gli aspetti sincretici, ricostruirne le sommation o eventualmente lo statuto inferenziale, ovvero, credo, il rapporto statico e dinamico che genera la testualità e desta la semiosi: lo schema. Eco non aveva tutti i torti, se leggiamo dal punto di vista algebrico matematico i risultati, ma se il punto di vista è quello di cogliere nuovamente, riscoprendone il valore, quella data complessità, allora né la semiotica interpretativa diviene strumentale né quella generativa sarà orientata in modo univoco e dunque il segno ci appare “sotto certi aspetti e capacità” che gli sono propri, con la consapevolezza di gradi di approssimazione.
Il compito tuttavia fin qui sembra chiaro. In realtà la semiotica interpretativa possiede qualcosa in più: il risultato delle operazioni offre un simulacro testuale, una sorta di testo finto, le cui tappe interne corrispondono a quelle lette in analisi, e, a questo punto, sembra, la spiegazione ottiene un elemento in più: diviene fortemente interattiva con il testo-oggetto osservato. È a questo punto forse che occorre cercare cosa è giusto poter dire, l’esempio è tratto dai tratti sincretici di arte rupestre (frequento il Corso della Comunità Europea al Centro Camuno di Studi Preistorici_Corsi integrati di scavo archeologico e manutenzione dei parchi – estate 2002 conferenze internazionali). Infatti penso che trovata la regola di generazione il semiotico debba assolvere squisitamente all’osservanza dei criteri di pertinenza e solo successivamente tentare una risemantizzazione dei criteri, codici estetici con i quali normalmente opera. La mia, forse per brevità, esemplificazione del problema quanto mai vasto, è solo un accenno. Forse è giusto dire che l’interpretazione più che fingere un testo di partenza dovrebbe cercare di permetterci di riscoprire tale testo e in tal senso trasformare le nostre competenze, le nostre abilità di comprensione dei testi visivi. La sola stringa di testo, che ricalca arbitrariamente una sommasion, spesso così pensata come oggetto della semiosi statica non più attualizzabile, non mi permette, credo di scegliere tra il racconto e la comparazione di altri testi. In pratica, per concludere, la semiotica interpretativa si pone in termini di accesso ai sistemi di significazione in modo infinito, potenzialmente, e per ciò è volta soprattutto a contribuire alla formazione di un lettore capace di leggere i testi più antichi e forse ad ipotizzare letture su testi dai codici sconosciuti, là dove la semiotica generativa svolge un altro incessante lavoro sulla pertinenza e l’adeguazione della teoria e all’abbrivio dell’incertezza attraverso il ritaglio e l’opportunità di strumenti più semplici e universali il possibile. In entrambi i casi, l’etica, la responsabilità, sono due compiti che trovano nelle scienze umane un valore più che un interesse.

L’analisi del visivo ha restituito al semiotico la possibilità di leggere gli oggetti senza ridurli sociologicamente a riflessi della cultura, partecipando così in parte a quella stessa vita a cui la semiosis in un certo senso aspira.