venerdì 19 febbraio 2010

retorica eidetica - la pagina illumina


STUDIO di Tania Letizia Gobbett


L'opera, così studiata, è il frutto della rielaborazione elettronica dell'immagine che ha come presupposto il processo di istruzione - ricerca del significato. L'immagine elettronica soggiacente l'analisi viene dalla banca dati della Zanichelli, di cui il manuale di storia dell'arte di Cricco e Di Teodoro ha offerto una ottima banca dati in cd rom per la ricerca, oltre a qualche forma di collaborazione segnatamente a qualche contributo - il ritaglio ravvicinato su David è suo, il rovesciamento stile pasta sfoglio, mio. Per lo studioso di storia dell'arte, per il docente, che ha a che fare con i nuovi media sempre di più, anche per derivazione formativa, dove non manchi coesione c'è la pratica: per esempio ho studiato grafica ma, ho disegnato molto prima di saper tracciare un raccordo con il computer, ho fatto migliaia di cerchi a mano, con il compasso, ho usato il famoso balustrone e fatto un corto su un piano diffusore con un semplice foulard - ragionando stile Le Courboisier sulle immagini in schematiche dissolvenze, come se potessero essere un segno contro la tragedia dell'AIDS, un'intenzione di ricerca; anni dopo all'Accademia delle belle arti di Bologna ho risposto con un bozzetto ad un call per un'opera per l'Ospedale Rizzoli, mi è venuta una serie di quadrati con dei grafi, ricomponibili e ricombinabili; poi non c'è cerchio senza apotenusa perpendicolare. Quando ti accorgi della purezza del disegno su pc, hai solo la paura della quantità e della fretta, questa paura non lascerà mai l'artista - non so cosa pensino i musicisti, ma quando sento mia nipote studiare il piano sono contenta che abbia ereditato il piano della prozia, diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma - le note toccano l'orecchio, lo plasmano, danno forma al gusto, così il disegnatore non solo deve conoscere i suoi strumenti, ma i suoi organi e sensi per comprendere appieno il valore dell'arte. Così gli storici dell'arte che hanno fatto l'Istituto d'Arte sanno molte cose di tecnologia, di disegno, di scienze naturali e di chimica, di materie letterarie e storico artistiche, ma fanno anche progettazione e psicologia applicata perché ogni oggetto che inventi, che studi deve poter essere ratificato con certe norme progettuali che passano di fase in fase prima di essere restituite. La cultura umanistica del XV secolo non era priva di congegni progettuali che noi definiamo canoni almeno dai concili sull'architettura basilicale ecclesiastica che dalla grecia classica, che è la prima che si dà delle norme non assolutistiche ma non di meno prototipiche. Deriva alcune abilità legate alla percezione sistematica delle cose; per questo nascono gli stili o ordini architettonici. Se analizziamo la sintassi espressiva di un'opera tramite l'iconografia scopriamo le rime plastiche e cromatiche prima dei valori ritmici che potrebbero esser dati da rapporti matematici, secondo qualche coscienza astratta. Non di meno con un occhio di riguardo all'ingegneria romana. Guardare per credere: l'arte dimostra i propri limiti o l'eventuale modo di superarli. Ieri ho visto un documentario sulle trincee, così ad un certo punto mi è venuto in mente questo studio. Non so, sarà assurdo pensare che gli eserciti del XV secolo differivano la difesa della città con metodi simili? Chissà. In tanto a Rovereto nel sottosuolo, c'è un tunnel che arriva quasi fino a Calliano, dicono, io ne ho visto un pezzo. Certo quello del cavagliere John Hawkwood era un sepolcro in Terra Santa, sulla stregua della tradizione cristiana: nella chiesa stessa.

    L'informatica, nella ricerca storica artistica potrebbe servire per neutralizzare considerazioni indebite e cercare nonostante le possibili tentazioni di revisionismo, di disoccultare le teorie disimplicandole (Fabbri, dall'"Introduzione" a Dell'Imperfezione di Greimas) da usi ideologici - chissà se è come camminare per i campi, come il nostro personaggio del Buon Governo di Lorenzetti a cui dobbiamo l'uso della cassetta, borsa degli atrezzi curatoriali. Anche per tradurre ci vuole una certa esattezza (L'angelus di Walter Benjamin o se guardiamo cosa combina con le piume David, una certa giustezza di regole - in Caravaggio palma della resurrezione, non siamo tanto lontani dal concetto del libro dei morti in tutto il Rinascimento a ben vedere e persino Napoleone sembra venga dotato da David di uno di quei libri per consultazione sopra il quale è disposta la piuma "anagrafica". E cosa ne pensate di attribuire alla formula E=mc2 un ché di tanto breve quanto la giustezza di una piuma? Un certo anticatastrofismo genealogicamente storico qui sembra darci qualche intenzione di metodo. Un saggio di storia dell'arte medievale precisionista. Certo il basamento è donatelliano lo avrete già compreso. Lo sguardo da tergo forse allude alla resurrezione, o è una curiosa analogia del logos egiziano, cosa si può dire del giovane x? chiediamolo a Dante, magari lungo il cordolo, nodo su nodo troviamo un percorso ascendente e discendente, virgiliano tout court anche per la storia dell'umanità.



Stesso schema - ma sotto sopra: "meta" | lo spazio è già metalinguaggio
Quello che si nota è il riporto sulle ante, lo schema sensibile presuppone il concetto di accesso all'opera, che contribuisce a rendere verificabile il suo innesto prospettico. Come si vede da queste vele proiettate, la geometrica non solo interdefinisce gli oggetti, ma è un tratto di antropologia dell'immagine che ha alcuni suoi perché. Forse andrebbe chiarito meglio, proverò a spiegarmi meglio, cercando di motivare alcuni problemi in chiave semiotica, di rapporoti costituzionali con l'immagine, della presenza di regole di trasmissione e storicizzazione, di presa.

Dalla tarsia all'opera su tela - Sandro Botticelli
Lo spazio del fruitore è marcato, anche lo zoccolo del bordo inferiore rende l'opera nobile, si capisce che la struttura è minima, tutto inquadrato in un sistema che può gemmare, esser visto come attraverso un prisma, a condizione che la figura umana sia la misura dell'opera e lo sguardo la sua regia. Il Rinascimento botticelliano, uno dei più complessi artisti del quattrocento, è essenzialmente antologico-saggistico e lo dimostra la possibilità di raccordare modelli e studi, misura e proporzione volta al gigantismo architettonico della pittura di interni. Quanti sono gli spazi previsti da Botticelli? Quattro dice Calabrese. Qui rischiamo di dire cinque: oltre lo spessore dell'opera, lo spazio illusionistico, lo spazio del fruitore, lo spazio reale dell'opera, un rialzo strutturale di I stile che non fa che enunciare la complessità della materia, della natura del linguaggio dell'opera, quale elevazione della pittura a gioco di stili migliore? Rimane il dubbio che questo spazio, questo bordo, una volta marcato non vada reso attraverso le diagonali, in tal senso si esaltano proprietà diverse: così com'è protagonista è lo sguardo, ma altrimenti sarebbe la misura stessa della figura umana, nella presa delle spalle. Si tratta di ipotesi, in fin dei conti rimettono allo spettatore la necessità di una seconda occhiata per giungere ad una corretta interpretazione (Piero Montani), come quando devi aggiustare il punto di vista, scostandoti e non resta che vedere se calza, come sull'opera dell'Hayez, dove s'è già notato che non è una pittura frontale, ma da guardare di scorcio. La frontalità suscita nell'Hayez una certa volgare carnalità, come ritrovarsi con il sedere in primo piano - lo scorcio da sinistra, invece rimette alla profondità illusonistica l'ambiente complessivo inserendo la figura in un sensibile quadro di scorcio atmosferico: un dimagrimento prospettico efficacie, direbbe l'antropologia dell'immagine. Un ingentilimento 'dovuto', direbba la scuola dello sguardo rinascimentale.


Un che di già detto: è un trattato di retorica visiva sui diritti umani
Resta il gioco di intersezioni quale forza delle determinazioni oggettive narrabili, da ricostruire del tutto intertestualmente.
Mi piace l'osservazione di Alessandro Torboli: quella penna impugnata, è il segno di una persona che non ha lasciato a parte il suo destino, nonostante ciò che è avvenuto. Il teatro insegna! Una concezione partecipata di quella presa che non avrei sentito così protoromantica e postmoderna, così radicalmente davidiana! L'osservazione di Elisabetta Castenet, docente di filosofia, anche mi ha colpito molto: l'icona che vediamo sullo spigolo, emblematica per la questione dell'interpretazione, potrebbe essere una proiezione - sulla soglia di ciò che Marat ricordava ... e così abbiamo ridiscusso: meglio Bergson, sicuro dell'unità scenica, tuttavia ne articola il tempo in modo ipotetico, come dice Russell o attenersi ad una sorta di schematismo husserliano: schema come memoria. Rileggendo qualche idea di Kosslyn abbiamo una alternativa di metodo: una memoria da rigenerare sul fatto storico, non semplicemente un indizio a comando - ma se fosse anche questo il punto - tutti noi sappiamo quanto il pensiero possa ingannare, intralciare a volte - e funzionalmente tuttavia è un coadiuvante della fissazione linguistica per ripetizione. Il saggio qui esposto tuttavia pone dubbi costituzionali ammissibili: l'eidetica schematica dimostrata potrebbe essere intertestuale e da dove viene quella forma schematica che Paolo Uccello usa per la sua opera? Non sarà una sorta di universale schematico?Dunque se il 'canale' assurge di per sé a forma schematica, la semiotica generativa trova nella conferma eidetica una delle sue più flessibili e capaci strutture ragionate della semiotica del discorso, anche se certo non l'unica, a rendere conto di una scuola interattiva del senso anche se sommaria più che altro e quasi ondivaga nell'abduzione. Gli intuizionisti forse direbbero che l'idea è già nel senso, nella sua logica si pongono le basi della sua estrazione volta al linguaggio. Ci accontenteremmo di pensare che in quell'opera poteva esserci un senso più elevato e che ciò andrebbe dimostrato perché ormai nè abbiamo colto gli elementi e gli oggetti: forse anche questa è una sorta di rete. I contrasti, la posizione degli elementi materici, la trasformaizone marmorea del corpo, la successiva fissità della mano che detiene la lettera di Charlotte, indizio troppo labile e quasi costruito, la penna sullo scranno proprio in quelle prossimità, giudizio storico a posteriori, lo spigolo che ricostruisc il volto, emblema di un rovesciamneot del punto di vista, voluto, dall'artista per rendere il dubbio costitutivo dell'analisi: l'opera è interrogazione del dato, del fenomeno, ne assume il caso, come un avvocato e difende la sua sceneggiatura, scoprendone la trama.

Duomo di Siena - misure del tempo - panni | vele

STUDIO PROIETTIVO - panno, telo o vela



Di nuovo un caso di informatica quasi integrale.

Simone Martini - L'Annunciazione




Lo studio applicativo sull'Annunciazione è d'obbligo.

La flagellazione di Piero




Complicazioni iconografiche, ne La flagellazione di Piero della Francesca, ce ne sono parecchie già a partire dalle relazioni spaziali, il quadro cinetico, la presenza dei tre personaggi sul proscenio a destra di cui uno scalzo, angelico. ma guardando bene, quella spaziosità cinetica potrebbe essere ellittica descrizione di forze. Ci sono ottime verifiche nel manuale di Bona Castellotti - quasi tutti rifuggono dal pubblicare le loro ricerche iconografiche - troppo difficile - abbiamo già capito che questi artisti sono operatori simbolici, che lavorano per una comunità che ha già ambizioni universali. Ma forse è per questo che andrebbero studiati, credo.

Portrait - le funzioni speculari del ritratto - Piero della Francesca




Qui lo schema a vele, distribuito sul corpus generale dell'opera, in modo speculare o a facce affrontate come da canone di genere, stile II in Giotto - dove il rilievo, fuori dalle costrizioni e dagli interessi, descrive la natura umana, senza eccepire alcun ché. L'esempio "naturalistico" è ormai riconducibile a tutti gli effetti come illustrativo, che precede, sulla soglia, la trattatistica storica.

nel segno della trattatistica: Piero della Francesca




In questo caso, le didascalie appartengono allo studio su giovanni Acuto per Santa Maria del Fiore di Firenze - il tracciato che in Paolo Uccello definiva il piano frantale superiore e quello di scorcio inferiore, qui sembra assumere un canonico spessore. Il fatto non sarebbe sorprendente di per sè, sappiamo benissimo che Piero della francesca scrisse il de perspectiva pingendi e che lo spessore dell'immagine in termini ottici non poteva che essere la prima sfida della cultura "descrittiva" ekfrastica italiana. Vedremo come approfondire.

altri modi, stessa coesione - Il dono del Mantello



Anche i muli hanno un'intelligenza. Il dono potrebbe essere riferito al sagrato - il pezzo di terra in cui porre il cimitero. Non sarebbe discordante con la ricerca per completezza della regola francescana.

altre modalità_ piani | luci orientate soggettivamente




Questa breve analisi svolta in ppt mette in luce la possibilità di rileggere alcuni piani attraverso rapide condivisioni di strumenti - non solo scandendo con il colore la varietà di apporti di simmetria e profondità, ma individuando attraverso la scansione la teoria soggiacente. L'iconologia dell'opera non può essere costituita senza l'uso metaforico dell'edetica, ma non di meno piani, direzione della luce, presenza retoricmente completa del ritratto, costituiscono i raccordi funzionali allo sviluppo narrativo disforico ed euforico di eserciti contrapposti, quasi come se, tutti questi eserciti avessero un unico scopo: combattere l'orrore, il fanatismo bellico. al contrario dell'idea che siano schierati a battenti opposti, qui i Medici e il saraceno nel mezzo, sono dalla stessa parte. Si noti.

domenica 14 febbraio 2010

sestanti - Una visione del mito nella narratività - per frammenti, soglie

I. Scrittura visiva_il mito dei frangenti
La riflessione su alcune opere, alcuni procedimenti descrittivi, dell'autore è il modo in cui affrontare questo breve saggio – racconto. Scoprirne i vincoli formativi tra temi e nozioni è come costituire il testo come oggetto di riscrittura, di riflessione e di esperienza. La teoria della visione al centro del processo pedagogico: pensiamo a come elevarsi per poter guardare con maggiore profondità nei livelli superiori, o come apprezzare la leggera dissimetria nell’accesso all’opera, come considerare l’oggetto teorico-culturale rispetto ad una teoria delle forme ben formata, insomma come verificare l’universalità dello schema di Paolo Uccello, del cavaliere, del knight, sulla mise en page narrativa, che distribuisce miti, contenuti, scene, livelli di astrazione complessi, finestre sulla temporalità, forme di flusso più o meno continuo del discorso. Un costume, quello del fregiarsi, che assimila il modello euristico all’autobiografia.

    L’autore sul quale mi sono apprestata a trovare questi ambiti, lungo alcuni anni di ricerca, sulla tesi di laurea, è Italo Calvino. In un certo senso abbiamo molti Italo Calvino, ma seguendo questa ipotesi, è dimostrabile una sorta di unità: il Calvino dei saggi, in cui apparentemente la scrittura diviene essa stessa oggetto mitizzabile e, soprattutto, il Calvino che ha vissuto un concetto di narratività accanto a testi visuali-visivi: da Dante a Ignazio di Loyola a Carpaccio, Leonardo da vinci, Michelangelo, solo per considerare uno itao tra medioevo e modernità, ora considerati alla stregua di autori che hanno sottoposto le loro invenzioni alle regole della narrativà. Occorre dunque risalire all’idea generale di letteratura proprio come riscrittura per comprendere i modi di queste riscoperte – di una testualità che non sia mera catalogazione di oggetti irraggiungibili, inafferrabili benché seduttivi. Italo Calvino è stato significativamente uno scrittore osservante alcune regole di ricerca: da Hjelmslev Le langage riscopre l’importanza della fiaba, e in tal senso traduce la letteratura riattualizzandone le figure, ma accanto a questa impresa letteraria, voluta per Einaudi, ha misurato la propria speculazione filosofica sul concetto di 'classico' e sulle sue forme. Un primo esempio, di questa ipotesi di studio, è l’Ariosto il cui tema o mito di fondo, ora riletto con figure concrete e riattualizzabili è la passione. Il termine conduce a comprendere come passione e ricerca possano essere luoghi della filosofia (ethos ed pathos - secondo la scuola aristotelica e quindi generativa poi, ma in qualche misura sia la matrice di un fare creativo che attinge al logos in termini di figurazione, o figurale, in termini pittorici e quindi, secondo alcune declinazioni di Eco, di argomentazione presemiotica - per poi divenire elemento grafico), quindi, ai modi e alle valenze cui questa situazione di leggibilità la espone innestando una dinamica del valore irrecusabile, oggettiva. Di volta in volta Calvino sceglie motivazioni di genere: il romanzo, ne Il cavaliere inesistente, il gender per la figura di Bradamante (quasi una accademica armigera di medievale estrazione) destinata ad interpretare e sovvertire il mito stesso della scrittura come univoco possesso dell’uomo. Quasi un ritorno di ritmie arabe, di figure aniconiche di scenografie aperte a trasformazioni improvvise, che devono la loro cultura alla dantesca “alta fantasia”. Ciò che il mito sembra promettere, è la propria ermetica chiusura, alla pari del simbolo, ed è dunque un significante che ci troviamo ad interpretare, a reincorporare, nelle sue ricostruzioni soggettive del gusto, dell’atmosfera della bellezza naturale ri-codificata, tradotta. Poi interpreti di nuove sceneggiature, forse. Anche se sensibilmente si ha la percezione che grafica e musica siano gli ambiti dove queste architetture risaltino come filigrane di un tessuto cartaceo, epidermidi anch’esse, del gusto, frangenti otticamente e tattilmente sensibili.
    Nell’apertura all’edizione Einaudi dell’Orlando Furioso, il gotico fiammeggiante è già diffuso in tutta Europa, e la sua consolidata regola permea lo sviluppo della pietra, Calvino propone un genere di dialogo, la riappropriazione del mito, che costituisce la risorsa della letterarietà. Accanto al testo di Segre, Calvino ci porta all’interno della fenomenologia del discorso con valenze socioculturali. La prossimità degli interessi semiologici lo avvicinano alla costruzione precisa ed algebrica dell’Ariosto, prototipo fra gli autori internazionali del Quattrocento italiano. Qui il problema della forma dell’espressione nel contesto del libro e della ricchezza problematica ereditata come “mito della riscrittura”, ironicamente si accosta a scene affrontate quali tipologie di scrittura, dalla traduzione interlinguistica, oltre che alla reinvenzione. Calvino è infatti scrittore (forse) giustamente definito artigianale (per citare un contesto di studi, À la découvèrte de Italo Calvino, Cérisy–la–Salle, France, 1999): egli ristruttura l’impianto stesso del libro, ritraduce, ri – cita frasi anche sotto forma di giochi linguistici (anagrammi, acrostici, in forma riflessiva e simbolica, mitica introducendo uno iato figurale tra immagine e parola – l’immagine scritta); se da una lato pone il problema dell’autorialità, nelle sue funzioni tipiche, tra una scrittura sentita, programmata come scientifica ed un’esperienza umanistica in senso lato, il corpus dell’opera in cui prende corso la reinvenzione dei casi, affronta soprattutto problemi tipici di stile, rendendo così manifesta la dignità ricostruita del gesto, ora maturo del lettore – rilettore dei classici. Dunque le figure del mito possono rivivere in sceneggiature che ne mantengono intatte alcune proprietà: Il cavaliere inesistente è ora il mito di una filosofia alla ricerca di configurazioni orientalizzanti (lo zen per esempio) ricoprendo uno iato che dissimula la leggenda, come applicazione di una categoria universale, logica persino. Il Visconte dimezzato è costruito sulla ricerca del bene in senso umanistico (etho e spathos), dove possono riemergere figure sdoppiate a livello enunciazionale, regole, proiettive che innescano arie luminose ed oscuri meandri di forze equivocanti – Il san Giorgio e il Drago e il Sant’Agostino del Carpaccio, sono riletti in modo squisitamente filosofico – narrativo, ma fanno apparire le opere narrative come teli, cinematografici, sceneggiature neorealiste. Tali figure divengono mito letterario attraverso lo statuto, sia cognitivamente che pragmaticamente saliente, di una ipotesi di scrittura intesa come storico esperienziale (in riferimento alla relazione tra descrizione e autobiografia) mentre ne I nidi di ragno del 1957, stesso anno de L’Isola di Arturo di Elsa Morante, più che di una civiltà in senso lato che rende visibile la scrittura come oggetto materiale – monumentale, si tratta di una fuga spirituale dal destino tragico della guerra. La forma espressiva è quindi ancorata al supporto, che diviene oggetto culturale in termini di racconto (sfondo etico). L’esempio si ritrova di nuovo in Collezioni di sabbia dove il mito dell’oggettività diviene scrupolo di una norma di lettura. Alla stregua di castelli di sabbia potremmo vedere città mitologiche, celesti, o concrete, dove rifugiarsi, in un tentativo di fuga dall’assolutizzante omogeneità di forme piovute dall’alto, ne Le città invisibili – con fortificazioni difensive del crogiuolo di cultura che si palatinizza, lentamente. Il conflitto culturale è posto in termini iconici, di contrasto, mentre il visivo vero e proprio, per estensione ridesta il logos di una tessitura riverberata in altri periodi storici, come le salienze della scrittura egizia. Ne Lo sguardo dell’archeologo, sia sotto forme meno critiche o analitiche, apparentemente, come La colonna Traianea al limite di una proposta di scuola dello sguardo (pubblicata in FMR), tra attorialità ed elogio del contatto con il testo diretto, privo di messe in ombra della citazione, la scrittura diviene così una forma di sapienza ed ex voto, promessa di riscatto, da ricollocare all’interno della dinamica valoriale – un discorso che riporta in luce riscattandoli i volti della letteratura – nel riesumarne i testi. Questa l’archeologia – quasi iconica di Italo Calvino. Ciò che scolpisce la carta su cui incide il senso del discorso è un modo medievale, umanistico di ricomporre l’obiettivo, l’objecto, conservativo della scrittura: il punto di partenza, il gesto di apertura, rimane l’istanza narrativa enunciante attraverso il possesso di qualità fenomenologiche che dà all’oggetto storico dei limiti che qualificano in qualche misura il gesto stesso di apertura dell’analisi – così l’esperienza letteraria-estetica, giustifica progetti ciclopici che devono avere concetti euristici generali tali da soddisfare regole interpretative, palinsesti collettivi.
Lezioni americane – Norton Lectures – un luogo di Peirce anche nelle N. Readers - investe sul ruolo della scrittura come mito costituzionale. Se sullo sfondo il mito della scrittura come risorsa umbratile è Conrad, è nella sua possibilità di proporre figure, metafore espressive, che rimettono in causa la scientificità e l’immaginazione potenziale, quali ipotesi generative, attraverso la coscienza delle trasformazioni del proprio sapere e di quello dell’altro. È certo stato osservato da diversi autori (tra cui Philippe Darros, Roberto Deidier, Paolo Fabbri, solo per citarne brevemente alcuni tra visivo e narrativo), che l’oggetto del romanzo si propone tal volta come riattualizzazione, di leggibilità dell’opera, assumendo un significato propositivo inedito – dove se la traduzione possiede regole, meccanismi riproduttivi, ha tuttavia qualcosa di intrinseco, la possibilità di ricostruire una certa intensione sintattica, una visione incerta tal volta della superficie del campo semantico, tutta da esplorare, un’oggettività o “benjaminiana esattezza”, che segue termini in opposizione drastica che sono topoi della pagina – enunciati di valore - dal punto di vista visivo e narrativo che quindi si surmodalizzano di contenuto. Un saper vedere che implica, un gusto per l’accessibilità del discorso sull’opera: un lavorio della critica, che sembra sfrondare le quinte e togliersi dall’aurea dello spettatore per riassumere quella del faccendiere, tutto fare, leggiadro scopritore di inediti frangenti. La scoperta di questa misura plurivoca, resistente, di semiotiche (narrativo diviene, evidentemente, un testo di Berio, musicale) ha reso possibile un percorso sperimentale, senza cariche negative troppo profonde, senza sistematiche frontali tali da opporsi al lettore: una reciprocità di tatto e contatto con gli oggetti che diviene schema evolutivo.    
    La sua tensione artigianale, da tarsia, le cui fughe giocano di soppiatto nuove animazioni, è un semema del cinema – quella tensione tra stile e artigianato, tra scrittura e logos (corpo o luogo) - che sembrano affiorare direttamente dalla dicotomia barthesiana, in cui ogni libro è ideograficamente la cura di una mancanza di delucidazione. Instaura un percorso di riscrittura inteso come organon fenomenologico quando, come Yourcenar, riesce a danzare, viaggiare con il lettore, in un viaggio senza tempo, distribuito sulle esigenze dell’esperienza – a vocazione universalizzante. Mentre come nella predella delle stazioni, la laicità di Calvino sembra enunciarsi come gravida di riferimento alla domus paleocristiana, si rivolge alla casa editrice – con l’immagine magrittiana di Una pietra sopra: sfondo. La metodologia etica intreccia una discussione con i Miti d’oggi del consumo letterario – sono i suoi “propri”, i suoi “daimon”, quelli dello scrittore Calvino, a confluire nella dialettica; è certo il saggio più cospicuo della crisi che apre alla metodologia umanistica in termini cibernetici non senza enunciare qualche dogma canonile della professione.

II. Alla ricerca di alcune definizioni
Ultimo pretesto, per parlare di mito e visione della letterarietà, nell’iperbole calviniana è dato dal concetto di rivoluzione: Galileo che guarda la Luna ma che ne è visto, si immagina l’autore, in uno dei possibili libri sulla Terra, apre alle Cosmicomiche, in cui l’autore è costretto a fingersi oggettivo, inventando ed esplorando le maglie di un discorso proiettivo, talvolta sensuale, sulla scienza, feconda di forme e di scoperte possibili, e sull’esercizio di pensiero che diviene oggetto di una riflessione (si pensi al ghedanken experiment); la ricerca è modello dei modelli, appassionata sistematica delle proprie convinzioni, sguardo che si smarrisce ritrovandosi in uno spazio infinito e indefinito, in Palomar. In questo caso lo spazio mitologico è quello del Mondo scritto e non scritto di Galileo, della lectio magistralis si potrebbe dire tenuta all’École des hautes études di Parigi nel 1984 – ma mentre illustra, stile Kurosawa, il mito antico, immerge le figure personali, gli effetti di presenza nella California degli anni ’70-’80. Certo mitogramma dell’Isola di Arturo di Elsa Morante, forse, se ricorda omofonicamente il ricercatore ebreo fuggito al nazismo che inventa lo specchio a forma di alveare a Bologna (La Specola), John di Arturo. Per Calvino, l’osservazione è un modo per purificare la mente: alcuni impulsi straordinari che si rivelano in Se una notte d’inverno un viaggiatore, lo liberano dalla demagogia sessista del potere del libro. Poi è la scienza dell’osservazione nella sua dialettica semiologica a convertirlo profondamente ad una veste canonile della scrittura visiva: con Svetlana Alpers, perlustra i campi più remoti della costruzione cognitivista della semiotica che provengono dal pragmatismo, con una fertilità di intuizioni improvvise – Rembrandt diviene l’apologo della scrittura impugnata, più che impegnata. Tenere in mano la penna, custodire la forma della scrittura, danno sapore al virtuosismo iconografico di Escher tra letteratura, estetica e l’ingegneria edile di un mondo possibile da costruire. La Alpers lo guida alla profondità, all’ambra stilizzata da vedere in una luce fioca di ombre e rami imprevisti dove per restare vivide le forme devono assumere il valore dei dati, dei fenomeni da osservare. La critica non può esimersi dalla scienze del contenuto, così l’operatività di Calvino diviene selezione di soggetti che gli piacciono, lo coinvolgono, in equilibrio, tra informazione e cultura avvolgente. L’oggetto stesso del vedere, in Palomar, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, sembrano omaggi alla sperimentazione della “durata dello sguardo”, all’intensione dell’invenzione, ai suoi limiti urbani, civili. Se dalla visione cibernetica emergono i fantasmi della guerra, è il talento e la fiducia nella comicità, nell’ironia che risvegliano la scienza, nella serendipity calviniana, dove le cose, non sono viste che sotto una nuova o diversa angolazione. Osservazioni dalla finestra ottica albertiana e viste a cannocchiale si confondono, integrandosi, iponimica una, e iperonimica l’altra, come principio della variazione, digressione consentita, divengono sinonimi di due diverse linearità del divenire visivo. Non meno che filologico, congetturale, sui modelli, come tappeti di Aladino (il pensiero di Dante era volto più al trivio che al quadrivio e la fisica ottica, nel Paradiso, era già costitutiva di una visione del mondo a nodi, a canti che intrecciano percorsi interattivi, dove il cuore del discorso è una sorta di interdisciplinarietà di modelli) – così se dalla visione dei generi Calvino apprende il concetto di neutro e costituisce comunque sfide agli oggetti storici, l’occhio, la percezione visiva e quindi il tatto, costituiscono anafore della mente, del senziente: il testo scorso, la corazza pulita nelle sue interfacce, ricorda quella del duca da Montefeltro, i suoi rilfessi, finestre o specchi del senso del luogo.
Narratività per immagini o cotesti come Leggere un quadro come fosse un romanzo sono i luoghi dell’esercizio del mito per la storia in Italo Calvino, concetti, forme che potrebbero non destare stupore se finalmente generalizzati ma costituire appunto dei residui topici veri e propri – avanzi – cocci dell’arte del descrivere. Per Svetlana l’altro paladino della stratificazione ekfrastica è Vermeer, olandese, immerso nella luce nordica della costa – mentre è il Seicento Barocco e tortile a indulgere nelle divagazioni, nelle variazioni, nelle digressioni più inconsuete e sorprendenti. Svetlana traduce e Calvino immerge la scrittura in una sorta di purificazione dal mal di scrivere professionale, monotono, quotidiano, informativo e secco – gli oggetti si moltiplicano come visti attraverso una toilette di specchi: nella veste del pittore, troviamo la storia, la geografia, l’osservazione – anche le generalizzazioni si astraggono, come per un processo di ricerca, di "sollevazione", in punta di piedi, come per la tarsia, per poter guardare in quello scomparto all’ultimo piano, cosa c’è, in quelle profondità – e si dà il caso che Vermeer con un pizzico di complicità a sua volta ci guarda, quasi ammiccante, come di qualcuno che ha visto e ce lo vuole dire, indagando solo con il quadro, il suo strumento prediletto, la filosofia del discorso. La lettera, il libro, la carta geografica sul muro o sul tavolo, o incollata sul mappamondo; l’attesa, la sorpresa, lo sguardo oltre la grata della finestra come per seguire il corso dell’immaginazione, il modo in cui il supporto si lega all’intonaco, al latte versato nella ciotola, alla camicia, alla carta intonsa dei margini lasciati respirare della carta appesa per una sola asticella: in termini simbolici, commisura lo spazio, in una serie di posizioni di lettura, adotta, si può dire, un silenzio posturale per lasciare spazio ad uno sguardo eloquente. La luce diviene protagonista del modo di generare senso in uno spazio restituito all’etica moderna. Mediatrice del pensiero scientifico che ragiona per evidenze, anche la cornice dà forma alla situazione, inquadrandola in scorci immediati in modo che risalti l’oggetto dell’occupazione – se la qualità della pittura è naturalistica, le proprietà di cui si costituisce l’opera restituiscono parte del mitogramma in cui protagonista è proprio quell’industriosa messa all’opera della lettura, della scrittura, della riflessione ponderata ed energica. Il Mondo diventa una rappresentazione possibile, una nobiltà obbligata, raffigurata in una figurazione emblematica stagliata quale configurazione atipica, unica, individualizzata. Stanco di usare parole desuete, lo scrittore, riflette sulla filigrana dei rapporti tra descrizione e rappresentazione. Scompaiono le frasi didascaliche, il lettore riacquista il diritto all’esplorazione fantastica dell’opera narrativa. Mentre il quadro di storia designa il mito, d’Europa, la scrittura-pittura del quadro diviene equivoca: esistenza strutturale basata sullo scambio e alta riflessione sull’architettura di questi rapporti che si intessono e si complicano. Due ambiti estremi, quelli del privato e del pubblico che l’Olanda comincia ad interpretare con la sua curiosità per i massimi sistemi.
    La condizione estetica della realtà non ne è esclusa, è antropologicamente mediata, misurabile e limitatamente consumabile. Ora il raffronto “testo a testo” della trasposizione del mito è stato uno dei luoghi più rappresentativi di una sorta di traduzione – riscrittura proprio dalla scuola di NewYork, l’interattività del commento, l’ipotesi del chiarimento induttivo, lo spazio della riflessione, sono necessità esistenziali. In Calvino questa “pittura” dello stile, giocando al contrario, questa individuazione dello stile, cecandovi la postura, si nota nei racconti a saggio breve in cui rivive il mito dello scrittore come aurea, penombra dell'opera d'arte: Lo spazio inquieto dedicato a Fausto Melotti, diviene contrappunto straordinario di finitezza e non finito, quale esempio di dispositivi letterari svincolati dal catalogo saggistico – la teoria si intravede, ma è come la finestra nella Lattaia di Vermeer, le sue luci si mescolano agli oggetti, ma non rendono questi succubi della loro esposizione: si librano ognuno secondo la loro definizione di usabilità alla costruzione del significato complessivo, in quell’attesa normalizzata, che comporta quella lettura, pausata, mentre la lattaia versa il latte e nella misura in cui evita di versarne troppo, o poco. Una metodica giustezza che costituisce il dialogo non corretto – ma spontaneo. Quando si indaga l’opera cercandovi un guizzo, un’emergenza, si scoprono i profili di questi luoghi, come insenature, frastagliate, frangenti del silenzio all’opera. Ed è pur semplice individuarvi i temi preparatori della traduzione, le domande su ciò che significa l’opera. Lo spazio entro il quale si situano queste riscritture del pensato, dell’atto di lettura, che ricordano tanto la pittura di genere immersa in uno spazio proprio, quanto un genere di storia, può essere ben l’oggetto teorico della riflessione, il colmo dell’eloquenza della lettura silenziosa.

|Tania L. GOBBETT [riscrittura 2002 - 2010]





Questo testo è stato prodotto in una domanda di dottorato di ricerca nel 2002 - narratività dove mi ero iscritta chiedendo nella pub. dei foglietti esterni di mettere il cognome della mia prozia a cui avrei dedicato il dottorato di ricerca, dandogli comunque C.I etc. - Tania L. Maffei era l'addressee - l'università o altri, misero un foglio sulla porta, con su l'accesso dalla primo all'ottavo - io risultavo due volte: seconda e nona - per un imbroglio a penna di qualche scocciatore ingrato all'intelligenza umana! Oggi credo che l'università sia ancora impunita. mentre avveniva questo l'Università di bologna riconosce le lauree magistrali del DAMS arte, ma l'ancora sordida politica concorrenziale sleale in giro continuerà a rinfacciare, a distorcere, la libertà e l'autonomia che sono il fondo costituzionale di alcuni validi principi.

salut à tous les amis avec coeur

mercoledì 10 febbraio 2010

Necessità della vita dell'opera

Potrebbero essere portati in luce e dunque mossi due dilemmi sul rapporto dell'autore di manuali di storia dell'arte e quindi con le fonti - ma prima di curare il dilemma, la ferita esistenziale che si è creata - occorre fare luce sull'esistenza di un metodo di ricerca storica e critica-estetica fondante le proprie epistèmes. Il problema è l'approccio deduttivo ed intuitivo, non solo induttivo dell'insegnamento: fare storia dell'arte come metodo di insegnamento e non meramente restituirla, se al di sotto della superficie emerge lo sconcerto, l'omissione, il dubbio ma poi rielaborazione creativa per tutti. Setaccio filosofico del totalitarismo che nuoce a qualunque idea di libertà di ricerca: togliersi quel sasso dalla scarpa! Due guerre mondiali non sono una scaramuccia - sono concezioni del mondo fatte a pezzi o destituite o universali mancati, non letti, non considerati - la critica fondandosi sulla "mancanza" non può che essere necessaria. Dunque al contrario di certe voci negazionistiche omissive, mi porrei sul lato intersoggettivo dell'espressione, della dignità storica - dei travisamenti - e vorrei anche le cause dei travisamenti, se non è esporsi, sporgersi, descrivere oltre modo e troppo dalla finestra limitata del nostro tempo. Come ogni utopia si realizza su ciò che deve essere ricostruito per essere visto nell'insieme, l'omissione, ha una parvenza divergente, di mantenimento della rottura invece che di curatela.

> storia dell'arte come metodologia scientifica: pensiamo all'Argan filosofico che mette a confronto e discute le opere ed i movimenti sottoponendoli al giudizio scientifico-filosofico e quindi storico - è un metodo abbastanza ineccepibile che fa rivivere l'opera nel suo sistema con un margine di teologia abbastanza largo, quasi filologicamente prossimo ad una legge - a dichiarare una regola del dire, del lasciar discorrere l'opera.

> storia dell'arte come metodologia critica mira a riflettere ciò che è soggiacente a un dominio autoriale e poetico: necessità del commento, del confronto assiologico, del giudizio storico e richiede un ulteriore intreccio intersoggettivo o una metodologia più raffinata e professionale (insomma sapere cosa si dice almeno e cosa si traduce, quali strumenti vengono trasposti letteralmente).

Quest'ultima posizione ha aperto la terza più sfumata:

> necessità della critica storico-artistica come metodo epistemologico che riflette sull'estetica.

E due piani di lavorazione del discorso sulla Visione del mondo

> piano sintagmatico gestito sull'asse della sincronia | dialogo con l'opera e le sue finalità ristrette all'opera d'arte e al suo contenuto, la cui forma può essere l'impronta dello spirito, di un Io collettivo, di una ricerca selezionata di materie e strumenti, che costituisce il luogo della diffusione dell'opera, il suo tòpos analitico.

> piano paradigmatico e diacronico che implichi la durata del confronto possibile, individui la partizione come sua strumentazione paradgmatica, ponga la possibilità della posizione certa, storica e consustanziale o l'eventuale euristica, sia cogente nella trasversalità scientifica tra paradigmi (come quando si parla di Maxwell e poi si discute non più solo sullo spazio curvo, ma sulla qualità del tempo).

Ambedue necessitano della retorica quale buona forma di descrizione, spiegazione, informazione controllata o approfondita che sia e dunque dell'analisi: sarebbe trasmissione e informazione - due teorie che hanno dei modelli ormai noti, ma anche integrabili, con il ragionamento, sui casi.

I piani della ricerca sono sempre il primo e l'ultimo [Enciclopedia Universale Einaudi - voce "ricerca"] - prodromie - il fondamento e l'attività dello spirito - lo dobbiamo all'idea crociana della filosofia, ma il canone è probabilmente dato dall'architettura antropologica sistematizzata dalla Grecia classica ed ellenistica e poi emblematicamente dalla forma assunta dal Pantheon Romano, ma ha un che di antropologico, di indiscutibile e lo prova l'aderenza a forme semplici e complesse, al piano stesso del discorso pensato come fondamento, all'idea di un diritto laico o religioso che sia, come finalità dello sviluppo umano naturale; ma sembra non sia stata dismessa: non come dice Goethe, l'essere umano cola nella sua forma, ma sotto un'altra impressione o relazione costitutiva, lo spirito cola nella sua forma. Una po' l'epistemologia dell'envelope. L'esempio che mi è ventuo in mente è l'uomo di Boccioni o l'opera scultorea di Bartolini - un certo realismo che rimette al centro l'essere umano e un certo Futurismo che problematizza le proprie funzioni dello spirito: la creatività prima delle altre. Ma è anche territorio in senso esteso - globo - rispetto della natura, etc. Punti di vista. L'oggetto del discorso è sia l'esistenza immanente presupposta dell'opera, che operi sulla necessità di ex-perire: non soffrire, ma motivare la necessità di vivere, dischiudendo il colloquio con il nous, il dialogo.

I giudizi riflettenti sono di due tipi: estetica e teologia. Potrebbero proprorre una sintesi, una via non alternativa ma complessa dell'esistere del fenomeno e della creatività posta come intelligenza: l'accettazione della necessità umana di fronte al bene e al male come trionfo della vita e del bene accanto al trionfo dello spirito sull'essere incerto e parziale che sia.

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Il concetto di ferita, dovrebbe provenire dall'esistenzialismo francese, ma sembra che stiamo ripercorrendo il problema data la penuria di omissioni critiche dei manuali che risultano abbastanza costruite, mosse da un disimpegno: la storia umana può avere nelle sue forme di governo i seguenti problemi di condivisione dello sviluppo e che ne è di vedere il cielo in un'altro modo, o sotto la superficie, qualcosa di diverso che ricompone il segno:

a. il ricercatore, l'opera, l'oggetto, non entra in contatto con la legge nelle sue forme più esplicite, resta all'ombra di grandi nomi, di movimenti, non arriva: non viene insomma trasmessa;
b. le tesi che potrebbero rigenerare, restaurare un punto di vista, ricomporre la storia vengono omesse, ri-tardate;
c. il passo indietro dell'autore, nonostante non sia concepibile come voce unica della critica, deve poter essere commentabile in virtù della necessità ridischiudendo liberamente le fonti.