mercoledì 13 giugno 2012

] scorci filosofici tra le fonti dell'Illuminismo


L’EMPIRISMO ILLUMINATO di David HUME
L’ILLUMINISMO AUTORITARIO di Jean Jacques ROUSSEAU
La necessità delle scienze filosofiche per la conoscenza
e la politica come ricerca di un sistema di vita
] appunti per un sostegno individualizzato

Fonti principali Illuminismo in Inghilterra e Francia
AAVV, garzantina di filosofia, Milano, Garzanti, 1993
Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, Milano, Longanesi, 1983
Wikipedia, voci: Illuminismo, concetto di Illuminismo, le personalità

Parole chiave:
Illuminismo: rischiarare, rendere chiaro; critica e metodo
Hume: distinguere le impressioni dalle idee, la memoria dall’immaginazione; la vita come un flusso in continuo movimento; passaggio abbreviato tra termine ed enunciazione non fa che perpetuare idee soggettive non riscontrabili; sette tipi di relazioni oggettive; la nozione di esperienza; diversità degli approcci ipotetici – tra deduzione e induzione del dato o della legge. Rousseau: la democrazia come il migliore dei sistemi – per una rappresentatività aristocratica su modello della Polis.

Preambolo. Il periodo riconosciuto come Illuministico richiede qualche attenzione terminologica per la sua pervasiva estensione ad una pluralità di significati d’uso corrente, specifico, culturale e ora storico filosofico. Il problema di distinguere un illuminismo prettamente teorico dall’uso specifico che è stato introdotto nella storia richiede riferimenti a termini che riguardano alcune funzioni della filosofia quale il concetto di intelletto. Per cercare quindi di non creare cesure troppo artificiose, questa breve trattazione, cercherà di essere più riassuntiva possibile.
1700 – XVIII detto anche Il secolo dei lumi in quanto accanto ad una necessaria ripresa in campo filosofico del termine il secolo è caratterizzato da una maggiore sistematicità delle scienze, da uno spazio maggiore concesso all’invenzione, alla creazione di un approccio scientifico per regolare e rappresentare gli aspetti contenuti entro un termine a vocazione aperta e storicamente risalente alle origini della scienza stessa nell’alveolo della cultura indoeuropea e specificatamente greca.
Il concetto intuitivamente ricorda il rendere chiaro, rischiarare, porre un lume, svelare illuminando, acclarare (in italiano comporta anche una processualità esplorativa e investigativa) ma le sue origini medievali sono legati a termini meno significativi in sé e per tanto vale la pena di spendere alcune parole su termini come “illustrare” prossimi al concetto originario di enlumination e “descrivere” che pone dei limiti concettuali di attinenza e realtà concreta dei fatti, “trarre da un percorso noto” ed anche “mettere in una luce nuova” qualcosa che è stato visto o letto, scoperto o ritrovato dando così nuovo impulso alla storia che esigeva una condizione di chiarezza espositiva e di compendio (commento e riassunto dei testi). Tuttavia come è stato colto nel Rinascimento la riscoperta dei grammatici, ha posto anche questioni non solo di tipo analogico (analogia come somiglianza e parità di concetto) ma a richiesto una forma libera di indagine, che ha permesso di pensare al concetto di «illuminazione» come a qualcosa che riempie e rende vasto l’orizzonte, favorisce l’estensione di concetti e verbi, regole o fenomeni in base a fatti reali in chiave universale (generalizzazione), rende possibile lo studio dei meccanismi logici produttivi delle generalizzazioni stesse, favorisce lo studio e l’osservazione del vasto campo storico ponendosi al centro temporale, al crocevia simbolico della generalizzazione precisa dei fatti (aoristo). In tal veste non è un caso vedere nell’Illuminismo le fonti del laicismo moderno e contemporaneo più equilibrato ma anche il predominio della scienza sulle altre forme di conoscenza in quanto essa si costituisce sulla base dell’osservazione di leggi sperimentali.
Veste critica e metodologico scientifica. L’Illuminismo per poter sondare con sicura ratio lo scibile con credibilità senza deformare, né osservare in modo contraddittorio e quindi per formulare correttamente le proprie tesi sulla base di osservazioni concrete, si volge alle scienze conosciute: l’ottica sopra tutte (per il concetto di visione globale e d’insieme presa in un solo colpo o in più osservazioni restituibili), la critica ai concetti storici della filosofia e della formazione delle idee. Il concetto stesso dell’illuminismo, si pone come a fondamento delle scienze in quanto stabilisce come principio la fiducia destinata ad esse circa la loro finalità e la loro stessa libertà. Come primo ostacolo quindi da affrontare l’Illuminismo pone la sua critica nei confronti del dogmatismo, delle superstizioni e delle credenze. Per estensione l’emancipazione da queste posizioni costituisce una emancipazione culturale e politica insieme. Per metafora, probabilmente, si pensa che il termine abbia una continuità con tutto il pensiero filosofico in quanto determina un distacco dall’ignoranza a favore della conoscenza e per questo la necessità di riflessione sulla produzione stessa delle idee in ambito filosofico diventa la chiave di lettura della sua fortuna e della sua produttività in ogni campo. Sofisti, scettici, epicurei, stoici affrontarono il motivo persistente della dipendenza dell’uomo da schemi ultraterreni e immaginari e non dalla ragione, né dall’esperienza.
In senso storico l’Illuminismo nasce in Inghilterra sotto la spinta degli studi classici filosofici e scientifici dedicati ad ogni parte dello scibile umano. Dal punto di vista del processo del pensiero prende il nome di enlightenment in quanto pone in relazione l’attività del soggetto con il suo oggetto in senso concreto e reale anche dal punto di vista teorico e ipotetico. Si diffonde in Francia dove è esposto alla forza divulgativa delle Accademie scientifiche che inaugurano l’età illuminista – l’age des lumières tuttavia è connotata dalla segnata importanza con cui sono rappresentati i filosofi e la loro attività saggistica svincolata da immediati impieghi ma unitaria. Il testo diviene per tanto il centro della riflessione, la sua tenuta ed estensione ad ambiti diversificati. In Germania il movimento liberale e antioscurantista concede all’Illuminismo spazi di sviluppo (Immanuel Kant) che non hanno una continuità in quanto se ne accusa l’eccessiva personalizzazione, ma avranno un perdurare dovuto alla possibilità accademica di discussione e perseguimento del valore soggiacente compreso nel termine.
In Inghilterra sono letti Voltaire, Montesquieu, Fontanelle dall’originale quando già circolano le idee di Cartesio e sono sostenute quelle di Locke e Newton come metodologiche non senza contare sulla presenza di Francis Bacon come divulgatore. L’approccio critico e discorsivo aveva messo in luce le tensioni e le contraddizioni portate da una adesione passiva alla scienza (approccio sensibile, intuizionista già descritto da Spinoza o Leibniz che ricorrono alla trasposizione) per un approccio maggiormente generalizzato, dotato di una visione globale, degli effetti del pensiero filosofico che a necessità politiche costituzionali. David Hume, 1711-1776 ridefinisce la teoria generale dell’Illuminismo sotto alcune condizioni di tipo empirico pratico: i fatti contenuti nelle leggi sono oggetto del filosofo. Il suo Trattato sulla natura umana, scritto in Francia, venne poi ridotto e sviluppato nella parte costitutiva dell’Indagine sull’intelletto umano. Il testo si propone di distinguere le impressioni dalle idee e ciò che queste generano qualitativamente: memoria e immaginazione. La realizzazione sistematica dello spazialismo di Cartesio su cui verterà tutta la discussione post kantiana avviene in modo più esplicito e comprensibile a partire dalle idee astratte aderendo certamente nella formulazione anche al pensiero di Berkley: “Tutte le idee generali non sono altro che idee particolari, legate ad un certo termine che dà loro un significato più estensivo, e fa si che esse richiamino alla mente in determinate occasioni (nozioni di ‘circostanza’ e di ‘momento’) altre cose simili ad esse”. Hume fonda la sua critica alla teoria nominalista che si pretende esaustiva e indifferente applicazione degli universali (derivata grossolanamente da Aristotele senza termine di specificazione che permetta di qualificare l’argomento: “l’uomo è razionale” o meglio invece “l’uomo è un essere razionale”) sulla base del principio di verificazione: cosa distingue quel gatto da quell’altro non è certo la somiglianza ma l’individualità. Il laicismo di Hume trova spazio nell’idea di spirito (grossolanamente tradotta di volta in volta con anima, sensibile, intelligenza): esso “non può formarsi alcuna nozione di quantità o qualità senza formarsi una nozione precisa del grado di ciascuna di esse” (in quanto ‘grandezze’). Si pone in un certo modo il problema del linguaggio oggetto della filosofia. Inoltre Hume rende ancora più chiara ma al contempo problematica l’aseità – la sameness - che sarà oggetto di riflessione filosofica ed estetica oltre che psicologica: può il soggetto parlare di come percepisce, o può solo osservarsi percipiente? Ma, quindi, non potrà affatto osare una definizione esatta del percepito (di ciò che di fatto ha percepito)? Per Hume la risposta è chiara: il corpo (e ne deduciamo soggettivamente il ) non è che un continuo flusso in movimento. La novità di questo pensiero è l’idea di traslazione, di trasmissione continua da un soggetto ad un altro, senza soluzione. L’individuo singolo può fare lo sforzo dettato dalla sua abilità in sostituzione delle impressioni e quindi delle semplici idee, di ricondurre i termini alla enunciazione o legge che questi rapportano (traslano) empiricamente alla realtà o meglio alla memoria del vissuto. Il passaggio breve, rapido tra termine ed enunciazione comporta una sorta di economizzazione ma traduce la rapidità e il flusso in perpetuo movimento in analogia con lo stato in cui troviamo l’essere. Hume non valida l’idea di Io e quindi sotto questo aspetto non è precursore dell’idealismo più marcatamente dialettico – è in fatti scettico su questa posizione – che con cautela sostiene non essere senziente ma un termine astratto e liquida in tal modo la questione della sua individuazione. Prossimo alle idee di Occham: il “mazzo” di percezioni che dovrebbe darci un certo Io, non è percepibile prima della sua appercezione, convocata in modo sensibile. (Devo insomma dire “Ehi, Paolo, ci sei? Giochi anche tu?” restituendo sia la relazione soggettiva che oggettiva).Vi possono essere conseguenze anche sul fatto che Hume così facendo toglie sostanza al sensibile in quanto in qualche modo lo generalizza come questione logica e teorica prima e quindi situa l’idea dell’essere Io come semplice idea di soggettività in sé non sostanziale. Il passo progressista, di Hume nella filosofia, se vogliamo dire così, avviene di conseguenza.
La tesi sulla soggettività entra nell’ambito delle modalità aletiche che riguardano la certezza o l’incertezza di una condizione data – ovvero il presupposto stesso della ricerca, la sua necessità. Questa modalità sarebbe tipica dell’aoristo perché ci pone in una condizione incerta rispetto al passato e particolarmente incerta riguardo al futuro in quanto non ancora presente.
Sette tipi di relazioni filosoficamente oggettive o rilevanti: somiglianza, identità, proporzione di quantità o di numero, grado delle qualità, contraddittorietà e causalità [varianti], relazioni di tempo e di spazio [invarianti]. (à invarianti e varianti - sono quelle particolari qualità fisiche, fonetiche e fonologiche riconoscibili nel linguaggio, riconosciute nelle grammatiche logiche già esistenti nella filosofia Aristotelica: Hume ne è evidentemente il fondatore. Con ciò sembra che Hume volesse dire che le categorie invarianti sono regolate dalle scienze esatte che tendono a raggiungere un grado di certezza per approssimazione, mentre le categorie varianti, di per sé rette da strutture logiche ed empiriche, basate sull’osservazione diretta, si fondano di conseguenza sulla certezza, altrimenti si possono semplicemente escludere) Hume parla quindi di conoscenza probabile e conoscenza certa. Contro un abuso della matematica (cabale et simili) o della geometria, Hume sembra ammonire: tutte le nostre idee son copie delle nostre impressioni. Relazioni indipendenti dalle idee sono l’identità, le relazioni spazio-temporali, la causalità. L’insieme, l’intrecciarsi, di queste tre condizioni è l’elemento sufficiente alla certezza oggetto a sua volta della conoscenza empirica.
Il concetto di esperienza indipendente da ogni concetto: per Hume l’esperienza è conoscibile solo per causa ed effetto (concreti) non per ragionamenti o riflessioni. Anzi è l’esperienza che ci conduce a conoscere le cause e gli effetti per deduzione perché in natura tale necessità non è affatto di natura logica ne determinata dalla ragione. La avvocatura dell’esperienza soggettiva di Hume si spinge al punto, da affermare che noi crediamo che una cosa dipenda da un’altra o via sia legata tale che una data impressione (precedentemente esperita) conduca ad una certa idea costituendo quella idea vivida, riferita o associata a un’impressione reale. Hume discute la fondatezza della base formativa della credenza: come ci formiamo, alla mente, una tale idea fissa che chiameremmo opinione diffusa, che in realtà non è che un’idea astratta? Come abbiamo visto – secondo Hume la causalità è ancora riferibile ai soli termini di successione o a catena – vie abbreviate verso una data legge o enunciazione [termine-termine-termine à enunciazione]. Per tanto ciò è visto come un limite.
In pratica sembrerebbe che Hume stia inseguendo una tesi sull’indimostrabilità dell’errore nella scienza, in quanto, dato che una verità è tradotta in un dato e non in un fenomeno determinato per se stesso, noi abbiamo solo impressioni, circa la certezza delle nostre osservazioni, di continuo. Ciò implica una nozione di errore accidentale. Russell mostra infatti la divisione della tesi soggettiva e oggettiva delle impressioni apportata da Hume, la quale sembra da un lato ricostruire la condizione incerta dell’esistenza di una legge siffatta, che, il dato sia un calco, una copia ripetibile di fenomeni, al di fuori delle nostre impressioni stesse, tali sono le aspettative che ci formiamo riguardo a determinate occorrenze anche quando non necessarie. La consequenzialità delle impressioni sarebbe tale che se A determina/è determinato/sarà causa di B allora AàB – quindi – pur non essendo necessaria: tale è la critica circa la condizionabilità di una impressione che appare in realtà come semplice idea. Hume riporta la questione dell’aspettazione – di ciò che vogliamo o vorremmo aspettarci o non dovremmo. Sono dunque pertinenti le nozioni di circostanza, di variabilità di un sistema, di occorrenza. Contro l’idea che un abito mentale (abitudine) possa essere certo rispetto ad una data occorrenza Russell riporta l’esempio della mela: voglio una mela, mordo una data mela ma il suo sapore, mi accorgo, può variare da mela a mela - per catene di aspetti rilevanti che caratterizzano quel dato frutto – rispetto all’aspettativa, a paragone della quale, credo che avrà certamente un dato sapore – sbagliando, nell’accertare la semplice aspettativa fornita dall’idea.
Nella causalità i fatti devono essere posti in congiunzione o successione altrimenti tali aspetti causali sono indefinibili. L’induzione come mera sequenza numerica di dati non è una forma valida di ragionamento. Indotti quindi a pensare che le relazioni di spazio e tempo possano essere scavalcate semplicemente discorrendo, l’uomo può farsi delle idee, che hanno anche una certa forza di fissazione, come delle immagini, nella sua memoria – ma solo la concreta presenza della realtà può confutarle e derimere la falsa idea così riposta grossolanamente nell’anima di una persona. Hume afferma, in fatti, che una relazione causale in assenza ovvero non in presenza non possa esser percepita con certezza. Ciò diviene oggetto di disputa dal momento che alcune leggi della fisica sembrano avere una forma causale tale che determinati fenomeni si verificano anche al di fuori della nostra osservazione diretta. (fatto che abbiamo visto occorrere già nella struttura della deduzione e che quindi caratterizza in gran parte l’induzione nella determinazione di una data occorrenza in base ad una regola già conosciuta e costituita tramite l’esperienza ma non necessariamente nella ripetizione dei fenomeni – se assaggio di nuovo la stessa mela ho nuovamente la stessa aspettativa non necessaria).
I paradossi ottici: “la semplice vista di due oggetti qualsiasi comunque in rapporto tra loro, non può mai darci l’idea d’una forza o d’un legame esistente fra loro (…)che questa abituale trasposizione è, quindi, la stessa cosa della forza e della necessità che in conseguenza sono immaginate nell’anima, e non percepite esternamente nei corpi?” (Russell, 1983, p.641) – Possiamo dedurne che per esteriorità Hume si limiti a considerare i fatti reali contro le impressioni artificialmente costruite? Diciamo di si. L’aspetto forse più progressista riguarda il suo pensiero circa l’identità: “Noi non dovremmo accettare come ragionate le osservazioni che facciamo intorno alle identità, e alle relazioni di spazio e i, dato che in nessuno di questi casi lo spirito va oltre ciò che è immediatamente presente ai sensi”. Per Hume le relazioni causali devono essere necessariamente provate (fatti percepiti) e quindi devono essere ricostruite deduttivamente. Il principio di empirismo sembra così consolidarsi. Ma citiamo Russell (p. 642): “Le leggi causali, da cui queste semplici leggi vengono sostituite nelle scienze già sviluppate, sono così complesse che sarebbe impossibile supporre che esse siano derivate dalla percezione; sono invece, evidentemente, delle elaborate deduzioni, tratte da quanto si è osservato in natura” e, dunque, se false, l’osservazione svolta è inesistente, nulla. Hume critica per tanto sia il concetto di abitudine a pensare (conformismo) che l’associazione di idee (libero legame tra oggetti per nulla connessi tra loro).

Conclusioni – Hume sembra essere fedele ad un’idea sperimentale dell’evidenza e dell’intenzione, per giungere a cogliere formalmente i nostri pregiudizi e le nostre false deduzioni e al tempo stesso fonda la filosofia sull’inviolabilità della presunzione di innocenza in quanto riporta a termini riducibili l’analisi attraverso sette categorie. La riduzione alla causa così come la verificazione sembrano i presupposti scientifici della scoperta. Hume ne affronta un paradosso debole, che riguarda l’essere vivente: il sangue è un tessuto eppure è liquido.
Scopo della scienza è raggiungere una sorta di omogeneità degli strumenti o di assunti all’interno di una legge. Il migliore dei modi, sostiene quindi Hume, di trattare una problema che affida la sua ragione alla credenza e al pregiudizio è la noncuranza e l’indifferenza mentre affidarsi ad una ragione di cuore, se si ha una verità propria, può tuttavia esserci da guida verso la poesia pura, o una visione pura. Hume per queste ragioni è stato definito in gran parte uno scettico in quanto pur avendo fatto leva sull’importanza della memoria e sulle forze che possono far leva su di essa – crede che la maggior parte dei problemi sia studiata in modo errato e per scopi finalizzati che non hanno molto a che vedere con la realtà o l’obiettività: una semplice idea deve tuttavia essere della consistenza di una fatto percepito e quindi il filosofo cerca nel limite all’artefazione proprio quegli spazi di verità che fuoriescono dalle errate o false deduzioni e indizioni.

In Francia
Rousseau, 1712-1778 a vissuto per lo più a Ginevra. Bertrand Russell sostiene che Rousseau è il padre del totalitarismo di Hitler, mentre Locke  all’opposto è il padre del movimento democratico internazionale.
Calvinista ortodosso Rousseau scappò in Piemonte per ottenere una borsa di studio e dovette convertirsi al cattolicesimo. Tralasciando la sua variegata biografia il suo primo successo fu legato ad un concorso il cui titolo  era: “Le scienze e le arti hanno conferito dei benefici all’umanità?” del 1750 circa – a Digione il filosofo propose un saggio interamente negativo, in cui sembrava percorre una sorta di pessimismo scettico. Più tardi i suoi attacchi alla legge naturale sembravano venati di un problematico ritorno al protestantesimo per conflitti territoriali – ritiene che i privilegi stabiliti per convenzione usurpino l’uguaglianza – mentre le differenze naturali di intelligenza, salute, età non sembrano assolutamente essere discusse per comprendere le differenze sociali. Il suo calco più evidente al teatro di Molière appare con l’idea di sazietà: se l’essere umano quando è affamato è cattivo, avido, sarebbe meglio incontrarlo quando esso è satollo dove la sua natura buona ancorché selvaggia non possa nuocerci. Le contraddizioni tuttavia sono evidenti: non solo dissocia la proprietà dal singolo ma poi anche dalla nazione e quindi dal continente, ma poi ritiene che l’avidità umana pacata con il cibo mascheri un soggetto infine solo in apparenza buono e ‘selvaggio’ ovvero ‘naturale’. Hume lo vide vittima delle sue stesse idee, un Micra piuttosto che un Apollo, alla caccia di forme che poi lo privano di concretezza.
Russell discute solo due aspetti per la sua accusa di totalitarismo: la teologia e la teoria politica. Rousseau appariva spesso come in ribellione contro il mondo – usciva persino dai ristoranti facendo scenate in cui si definiva un credente. Questo fanatismo lo portò a condividere la Festa dell’Essere Supremo con Robespierre. Le contraddizioni o forse un certo realismo ingenuo tal volta lo portarono a mettere in luce le sue influenze: “la professione di fede di un vicario savoiardo” ma bensì prive di tracce di una vera rielaborazione critica, di reminescenze. Forse comprese male Hume e diresse i suoi intenti a rendere superfluo il procedere filosofico – residuo della sua critica per éclats è la presenza di una coscienza infallibile ed esatta, che non può sbagliare e che manifesta alcune caratteristiche del genere per riduzione di tutte le causalità esterni alla Volontà Generale. Quando la ragione assume connotati religiosi e tuttavia i sentimenti possono essere soltanto simili tra individui Rousseau spazza via il concetto affidandosi nuovamente alla saggezza del selvaggio. La posizione cattolica fa si che contrapponga tradizionalmente la felicità vista come bene economico alla vita come valore trascendente. Questa “teologia del sacro cuore” per Russell non offre spazio ad argomenti ed è a stento una teoria.
Il Contratto sociale – base di una moderna società fondata sul concetto di bene quale vita attuale e futura dell’umanità tutta, è forse il testo più caratteristico di Rousseau, il più progressista. 1762 Russell scrive che nonostante il dissidio vissuto tra cattolicesimo e calvinismo Rousseau matura una scelta propria nella difesa inizialmente sobria dell’idea di democrazia ma poi concepisce un concetto di sovranità allora inconcepibile. Si definisce “cittadino di Ginevra” – “Nato di uno stato libero e membro della sovranità”. L’aristocrazia elettiva chiamata a rappresentare il popolo sovrano che implica la diretta partecipazione attiva di tutti i cittadini alla vita pubblica. Questa visione di dà forma, ma nel ritrovare il modello della città si sviluppa nelle sue direzioni interne, quella della Città Stato – Russell critica la pochezza dell’assunto – giusto a suo avviso ma andrebbe sviluppato ance per ovviare a fraintendimenti. Il pensiero di Rousseau si concetra infatti sull’idea di eguaglianza e di libertà – se sembra tradurre il contratto sociale di Locke e Hobbes – in realtà Rousseau lo configura più che altro per stadi evolutivi o ‘passaggi’: lo stato di natura; la perdita dell’indipendenza individualistica; il formarsi della società. “Ognuno di noi pone la sua persona e tutti i poteri in comune sotto la suprema direzione della volontà generale e, nella nostra capacità collettiva, ciascun membro è concepito come una parte indivisibile del tutto”. Corpo morale si chiama Stato ed ha funzioni più che altro passive – collettivo quando è Sovrano e attivo in tal senso – Potere quando deve le sue relazioni al rapporto con altri corpi. La Volontà generale è quella sovrana – non è infallibile e non è rappresentata visibilmente dallo Stato. Russell individua nel concetto forzoso o addirittura forzato di libertà una incrinatura nel pensiero di Rousseau per il quale lo Stato avrebbe l’obbligo di rendere l’individuo libero – forzatura che in sé non ha nulla di negativo ed è forse affine all’idea di miglioramento della qualità sociale dipendente da un contratto: Russell vi vede una sorta di tensione tra il termine ‘forzare’ e quello molto meno occasionale di libertà: si può essere liberi in un senso non convenzionale come quello di Byron alla ricerca di una libertà politica quando si è sottoposti ad una erosiva quanto coercitiva Volontà Generale? La divisione dei poteri o se vogliamo degli organismi è la componente che colpisce di più per vaghezza: ognuno avrebbe la sua parte, certo di far leggi ed eseguire, ma a chi spetta cosa? Inoltre un passaggio tetico restrittivo ci ricorda che l’aristocrazia elettiva sarà concepita come Volontà Generale, non certo maggioranze qualsiasi o persino il volere di tutti: insomma nella discussione di Russell appare ancora oscuro il metodo con cui il Governo possa esercitare “liberamente” tale volontà senza entrare in contraddizione con i suoi stessi scopi o finalità. Tale risposta trova consonanza con il concetto di democrazia: o è tale o è tirannide e allora la libertà non esiste o è di pochi sui molti.

Conclusioni Tre punti fermi restano validi nella scena polemica delle ‘personalità’ atte a rappresentare e definire il concetto di governo, nella sua dottrina politica: se la democrazia è adattabile, trasponibile, un governo farebbe bene a formarla e a custodirla perché è la migliore delle forme, pur nella sua promessa rappresentatività che pare disseminata talvolta di incertezze. I suoi limiti fisiologici meno scontati sono: il clima, la produzione esagerata e l’idea costante di ricorso al motivo dell’origine divina del governo. Il giudizio di Russell è venato di tristezza, di rassegnazione quasi a vederne il calco opportunistico o fatalistico: tutti quei popoli che disperano per condizioni gravi dovrebbero subire condizioni addirittura peggiori, con la tirannide?

13.o6.2012
di tania letizia obbett (c)
minima|visus [r]