venerdì 20 dicembre 2002

countdown MART_innaugurazione_16 dicembre 2002

La Montagna nell’Arte

Un pluralismo di viste tra simbolismo, corpus fenomenologico di un’eterna Madre Terra e tra la ricerca ora intesa come presupposto narrativo dove a ben guardare, per avviarsi sulle montagne, qualcosa si deve lasciare: Montagna intesa in senso sacro; come rovina, che porta con sé ciò che più caro potrebbe esserci, in un disegno assolato da nevaio, o in uno specchio celeste reso cromaticamente instabile e vivo da una stracciatura filamentosa di nubi.
Il MART ha deciso di trionfare con un inno. Non solo, si pone un valico tra testo e immagine e poi lo riunisce con una cordata di opere che segna l’evento di una enciclopedia come forma di semiotica visiva. Lo spazio icastico del Medioevo, sfronda le sue linee pungenti, da un bisogno quasi mentale, di ridefinire uno spazio concreto, in termini figurativamente e umanisticamente universalistici. Non solo il libro antico, ma la leggerezza e la rapidità di qualche supporto tecnologico che trasmette una visione «micro» della globalizzazione. Apparentemente paradossale, la Montagna riesce ad ispirare uno svolgimento non neutro, ma mosso da categorie profonde, in ogni epoca della storia dell’Arte: ed è di questo che si parla. Una mostra esaustiva che ci vede coinvolti in un confronto narrativo quasi invisibile, di mosse gentili e di gesti e sguardi critici che tornano a rivisitare il concetto di Mondo Naturale, attraverso gli strumenti della Camera delle Meraviglie. Il desiderio vissuto in questi intento straordinario e visionario, da “Montagna Incantata” è di uno sguardo oltre un valico: quello di provare l’emozione di un Paradiso Ritrovato, alla stregua delle delicate suggestioni miltoniane, malgrado la mossa più forte sia ancora il rapporto tra Arte e Scienza come configurazione poetica dello stato delle cose, in continua dinamica trasformazione. Pensare agli strumenti di crescita di una civilizzazione, e in qualche modo intravedere un senso profondo proprio nelle distese modulate attraverso tecniche pittoriche più varie, costituisce la sorpresa semiologia per eccellenza, la quale non si limita ad esporre le soglie di una riflessione continua nella storia, ma eccede in un intento minimale di rapportarsi al sacro, con i temi e le restituzioni tipografiche del testo narrativo moderno, e la visione del paesaggio naturale ora in reciproco confronto, in un dialogo asintotico, forse, tra Cézanne, Kandinsky, e Fulton, nella testualità indefinitamente percorribile dell’enciclopedia, infinitamente colta dalla ratio logico, matematica, ora fattasi realmente descrizione, ora ricomposta in rime rupestri, in cristalli, in visioni unitarie, in aspetti che ribadiscono l’ascesa, il trascendere dell’Opera d’Arte.
Il protagonista è in questa mostra davvero imponente del Polo Museario di Trento e Rovereto, colocato nella sede “Illuminista” della città, di Corso Bettini, è ora il quadro, malgrado la flessibile e profonda visione moderna del testo enciclopedico, dell’illustrazione ad incisione – proprio perché “ritrovata” in ua dimensione autonoma. Spesso colti nella sua componente originaria di dispositivo enunciazionale del visivo. Nel piano dell’esposizione permanente, e quindi seguendo uno schema che ha visto il Museo intrecciare con l’idea di interfaccia, la logica a layers del sito in cui è collocato come modulazione asintotica, di emergenza di un discorso plastico della Storia dell’Arte, il tema è di nuovo costituito quasi come un “riparo logico” intessuto di dinamiche riflessive. Ora il paesaggio è visto attraverso una finestra volta all’antico, ora lo scarto materiale della concrezione volge lo sguardo agli aspetti della centralità della terra (Burri) resa più urgente da un’arsura, raggelata assieme, di un cosmo che sembra perdere il sé che lo esalta. La ricerca che da fluidità riposte, diviene soffio leggero e panoramica sul segno estetico, sembra accostare il tema ad una cinematografia di esplorazione quasi primitiva ed etnografica: l’uomo che rappresenta la propria ricerca come segno. Il teatro della vita tra Arte e Scienza.
Dal XIV secolo, alle connessioni di rete di una neo rappresentazione digitale del visivo, proprio alla stregua dell’esploratore etnografico che si avvicina al limite polare artico o antartico che sia, in un impeto visionario e concreto al tempo stesso, e ora curioso incipit metaforico: finestra su di sé del Polo Museale, per cogliere ora se questa vetta, per quanto in iniziale espansione esaustiva, possa dare un segno critico veridittivo: un impronta capace di superare gli ostacoli di stereotipi dismessi, di avventurarsi nella storia con chiavi psicologiche mantenendo i piedi ben saldi nell’estetica; di far risuonare un fondo archivistico attraverso le voci della critica militante, quando il corpus teorico non sia immediatamente affiancato alla ricerca. Insomma un compleanno con candeline illuminate dalla sera attraverso l’apertura tardiva del Museo e una rinnovata accoglienza che favorisce una sosta incline al gusto e al senso estetico ora scientifico di uno spettatore che cerca con uno sguardo poetico e anche fiabesco tra le eidetiche composite e vivaci di un percorso che scorre il proprio impiantito tra il XIV secolo e la contemporaneità. Il valico è aperto da Warhol, con una particolare anticipazione delle stratificazioni interne della critica che rispondono ad un vaglio metodologico della ricerca di sfondo tra poesia visiva e natura.