martedì 4 agosto 2009

per un dottorato in semiotica dell'arte a distanza

Per un dottorato di semiotica - sulla storia della libertà di ricerca

> un tema dedicato agli studi
SEMIOTICA INTERPRETATIVA e SEMIOTICA GENERATIVA
a confronto sulle problematiche del VISIVO
Proposal_abstract


1. Le origini del confronto
2. Perché della possibilità di punti di vista diversi
3. La società riflessa negli oggetti


Il Novecento sembra aprirsi con una sfida storica in cui, per ciò che concerne i risultati, non ci sono né vinti né vincitori, ma una scienza in divenire. Penso ad una scienza per poterne privilegiare, in linea di massima, gli oggetti: si tratta dell’ambito problematico del visivo che per quanto ne sappiamo è sempre stato oggetto di studio con diversi approcci più o meno finalizzati a rinverdire metodologie di scoperta o soluzioni a problemi reali. Per una scienza del visivo, dunque, non è veramente importante come con esattezza, passo dopo passo, è stata realizzata l’opera ma, credo, quali siano in generale i modi di leggerla. Sono questi in fatti i luoghi di attracco cui partecipano questi due orientamenti semiotici.
Ma ecco qualche concetto. Sulle file della filosofia del linguaggio Umberto Eco scopre l’opportunità di una rivisitazione accurata delle soglie trasmesse ai posteri di una possibile storia dell’iconismo, termine con il quale si designa l’ambito specifico che vorremmo studiare. I primi gesti operativi su tale oggetto sono stati svolti in Opera aperta negli anni ’69-’70, sulle linee percorse attorno all’idea che l’opera avesse una sua costruzione metaforica e in quanto tale fosse interpretabile. Muovendo dagli anni ’70 in poi su quelle che vennero percorse come modalità di produzione segnica, tale costrutto implicito venne articolato sia nelle distinzioni più radicali delle ratio graduate con cui distinguiamo modalità stilistiche (tra le quali ‘tracce’ e ‘campioni’) e le ‘invenzioni’ vere e proprie, ma allo stesso rango di difficoltà interpretativa, per via della ricostruzione dell’oggetto|soggetto impressore, le ‘impronte’. Tuttavia è con il percorso filosofico che si ha accesso a queste soglie e il “segno come differenza”, in Semiotica e filosofia del linguaggio apre alla necessità di articolare le reciproche forme e sostanze dell’espressione e del contenuto, concependo un raccordo, una generale ricapitolazione ipotetica, dello strutturalismo hjelmsleviano sull’istanza interpretativa di origine americana e pragmatica che vede in Charles Sanders Peirce il suo padre fondatore. La distinzione del segno in modalità attraverso le quali conosciamo il segno sono per il semiotico americano “aspettualizzabili” incrociando alcuni termini di base, in «icona, indice, simbolo». “Un segno”, risolvendo così il tratto della somiglianza, “sta per il suo antecedente per alcuni aspetti e capacità”. Peirce mise in rilievo la necessità sia speculativa, credo immanente, della comprensione, che quella della sua produttività in termini di risoluzione, deittica se vogliamo, alla stregua della risoluzione greimasiana, generativa dell’École de Paris. In effetti, la profondità istituita come processo, quasi di comprensione, dei dati della significazione nel processo generativo, garantiva entrambe queste due facoltà: da un lato la convocazione restituisce la sintassi profonda del senso, dall’altro la conversione garantisce della sua adeguazione sul piano figurativo e semantico, in vista dell’enunciazione vera e propria.
Tuttavia per certi aspetti la semiotica generativa ritiene non sia osservabile il segno, immediatamente è così chiarita la necessità di poter contribuire all’intelligibilità di ciò che avviene sotto la superficie del significante in termini di relazioni strutturalmente orientate. I processi abduttivi e inferenziali con i quali comprendiamo e interpretiamo i segni, sono perciò possibili, ma in un certo senso necessitano di una serie di operazioni di riduzione agli elementi e aspetti minimi che restituiscono la rappresentazione del significato nella sua generatività. Eco, in Kant e l’orintorinco, sostiene infine la non incompatibilità delle analisi: si tratta di un di più di senso, di una comprensione qualitativa, non di una mera disposizione di dati lungo questa o quella strategia analitica. Tuttavia le due modalità, le due epistème, interdefiniscono le proprie metodologie a partire da porzioni diverse degli universi di senso. Il dizionario di Greimas e Courtés, del 1979 (tr.it. 1986) fissa in quattro tappe il percorso della teoria al fine di scandagliarne i livelli e garantire la coerenza. Per Peirce, questo processo, appare nel Memoir, dove discute delle più piccole unità di significato possibili a cui giungere, in un certo senso, per meglio gestire i dati, la loro analisi, gli strumenti che ne favoriscono l’accesso; inoltre parla di una sorta di quadrato sempre più piccolo, che serve a ridurre il molteplice in vista di una regola minima sufficientemente generale. Tanto che, leggendo i risultati di una sorta di ibrido tra interpretazione e generazione, nel testo di Jacques Fontanille, Tensivité et signification, alla voce «schema» e al suo modello canonile, mi venne spontaneo di correlare questi approcci sostenendo che forse, da un punto di vista interattivo, fosse possibile leggervi le medesime conseguenze di osservanza del principio empirico dell’analisi: il testo, forse meglio, le forme di testualità possiedono delle strutture di significazione che sono intelligibili e dunque visibili attraverso il loro significante. In questi ultimi decenni, il testo di Eco succitato è del 1997, quello di Fontanille del 1998, l’orientamento più costruttivo è stato quello di cercare più le somiglianze, i contributi positivi, le capacità euristiche, piuttosto che il contrario. L’icona per Eco è e rimane termine complesso quando possiede un valore iponimico [ipoicona – cit. in VISIO] che la configura come categoria e solo in tal senso si ritiene la sua possibilità di risolvere in modo appropriato la correlazione intersoggettiva dei subcontrari. Le origini aristoteliche in Eco e in Greimas, sembrano dunque, come dicevo più sopra, ad una logica passo passo, set by step, una diversa logica per opposizioni, sulla quale, successivamente si apre in maniera interessante il concetto di “sasie” e di esperienza. Vi è un soggetto che partecipa della distribuzione del contenuto e che attraverso tale esperienza condivide perdite e acquisizioni in termini di modalizzazioni dei valori e soprattutto nei termini aspettuali, circa la prossimità e distanza da tali forme della significazione. La sfida sembra doversi svolgere tra la graduale acquisizione della competenza del soggetto e l’orientamento valoriale che in seguito, ne realizzerà alcune modalità in modo regolato alla stregua dell’abito logico finale. Queste negoziazioni non sono asettiche, ma sono veri e propri luoghi di trasformazione dei soggetti e degli oggetti di valore. Ecco come la logica dell’esperienza nella sua componente enunciazionale interviene, da un lato, ristabilendo una sorta di ritmica di partecipatività: la logica della sfida, del duello, contraddittoria per eccellenza, si dispone sulla scelta dei soggetti rispetto alle proprie abilità di riconoscimento degli oggetti di valore o se vogliamo delle categorie da contemplare. Qui si risolvono a mio avviso entrambe le semiotiche: un fondamento etico volto all’estetica e alla sanzione come morale in atto.
Per quanto gli approcci sembrano analizzare momenti diversi, campionamenti appartenenti a diversi tipi d’efficacia, si sono posti entrambi il compito di ricongiungersi negli obiettivi dell’analisi del visivo attraverso strumenti teorici interdefiniti. Nel 1984, Greimas rende pubblico il testo in cui procrastina la fine di un limite nei confronti del visivo ed interpella i cultori della materia e gli scienziati, perché si verifichino le ipotesi su testi visivi concreti “i nostri selvaggi”. Il segno (ora metaforicamente) di un cambiamento epistemologico tuttavia non deve essere azzardato. In realtà sono le nozioni di semi-simbolico, interdefinite a partire dalle semiotiche multiplanari che spinsero in tale direzione di ricerca. Il significante plastico appare dunque sotto l’aspetto delle sue relazioni alla stregua del suo significato. In questi termini, anche se meno radicali, già operava nel 1966 Jakobson, portando a termine alcune analisi sulla trasposizione in tema di traduzione intersemiotica, al cui interno è ravvisabile, se non per il concetto di tratto differenziale distintivo, lo stesso tipo di procedure. È in fatti Hjielmslev (Zinna, A., Versus, 43) a risalire al problema immanente, dal punto di vista filosofico ed estetico oltre che linguistico tracciando così una diversa e nuova soglia di lettura per “figure” minime del contenuto. Ecco dunque che negli anni ’90 un fervente interesse di ricerca attorno al semisimbolico trova la sua ragione. Da un lato le ratio saranno ridefinibili in gradienti permettendo alla semiotica interpretativa un’avvicinamento progressivo ai dati della percezione. Dall’altro la semiotica generativa si trova sul campo l’onere di un’enorme quantità di termini tra astratto e concreto da interdefinire per garantire la coerenza della disciplina.
Nel 1986 gli studiosi di tutta l’Europa che si occupano del visivo collaborarono alla riscrittura, per quelli della Hachette, dell’ambito che oltre al visivo è oggi conosciuto in parte come semiotica del sensibile e che deve a questi primi urgenti rivolgimenti disciplinari il proprio successivo sviluppo. Ma torniamo ai luoghi: l’École de Paris si è articolata in modo talmente ricco e vario da rendere difficile la sua sintetica ricostruzione. Dopo i risultati teorici di Roland Barthes su l’Ovvio e l’ottuso, i Miti d’oggi, Camera chiara, la semiotica si è volta ad una concezione scientifica mirante ad una maggiore efficacia delle sue procedure di esplicitazione. Termini come “figurale”, “figurativo” e “figura”, appaiono oggi come afferenti alle semiotiche pluriplanari tanto quanto le loro origini linguistiche e in certi aspetti ne recuperano, per fare un esempio, alcune forme indicali (anafora, catafora | anaforici, deittici); la direzione dell’analisi quindi non esclude a priori il soggetto, ma minimizza l’ingerenza idiosincratica in vista della migliore e più efficace possibile adesione ai dati. Uno degli altri termini paradigmatici che oggi si trova a competere tra queste due strategie esplicative è il termine «sincretico». U. Eco ne parlò, quasi male, nelle Cinque lezioni morali asserendo di un banale e strumentale uso, praticamente monosemico, da parte del fascismo. Tuttavia in testi, di un certo rigore credo, sia scientifici, che atti alla ricerca, questo problema sembra ricoprire uno dei maggiori ambiti del visivo: differenziare le immagini, coglierne gli aspetti sincretici, ricostruirne le sommation o eventualmente lo statuto inferenziale, ovvero, credo, il rapporto statico e dinamico che genera la testualità e desta la semiosi: lo schema. Eco non aveva tutti i torti, se leggiamo dal punto di vista algebrico matematico i risultati, ma se il punto di vista è quello di cogliere nuovamente, riscoprendone il valore, quella data complessità, allora né la semiotica interpretativa diviene strumentale né quella generativa sarà orientata in modo univoco e dunque il segno ci appare “sotto certi aspetti e capacità” che gli sono propri, con la consapevolezza di gradi di approssimazione.
Il compito tuttavia fin qui sembra chiaro. In realtà la semiotica interpretativa possiede qualcosa in più: il risultato delle operazioni offre un simulacro testuale, una sorta di testo finto, le cui tappe interne corrispondono a quelle lette in analisi, e, a questo punto, sembra, la spiegazione ottiene un elemento in più: diviene fortemente interattiva con il testo-oggetto osservato. È a questo punto forse che occorre cercare cosa è giusto poter dire, l’esempio è tratto dai tratti sincretici di arte rupestre (frequento il Corso della Comunità Europea al Centro Camuno di Studi Preistorici_Corsi integrati di scavo archeologico e manutenzione dei parchi – estate 2002 conferenze internazionali). Infatti penso che trovata la regola di generazione il semiotico debba assolvere squisitamente all’osservanza dei criteri di pertinenza e solo successivamente tentare una risemantizzazione dei criteri, codici estetici con i quali normalmente opera. La mia, forse per brevità, esemplificazione del problema quanto mai vasto, è solo un accenno. Forse è giusto dire che l’interpretazione più che fingere un testo di partenza dovrebbe cercare di permetterci di riscoprire tale testo e in tal senso trasformare le nostre competenze, le nostre abilità di comprensione dei testi visivi. La sola stringa di testo, che ricalca arbitrariamente una sommasion, spesso così pensata come oggetto della semiosi statica non più attualizzabile, non mi permette, credo di scegliere tra il racconto e la comparazione di altri testi. In pratica, per concludere, la semiotica interpretativa si pone in termini di accesso ai sistemi di significazione in modo infinito, potenzialmente, e per ciò è volta soprattutto a contribuire alla formazione di un lettore capace di leggere i testi più antichi e forse ad ipotizzare letture su testi dai codici sconosciuti, là dove la semiotica generativa svolge un altro incessante lavoro sulla pertinenza e l’adeguazione della teoria e all’abbrivio dell’incertezza attraverso il ritaglio e l’opportunità di strumenti più semplici e universali il possibile. In entrambi i casi, l’etica, la responsabilità, sono due compiti che trovano nelle scienze umane un valore più che un interesse.

L’analisi del visivo ha restituito al semiotico la possibilità di leggere gli oggetti senza ridurli sociologicamente a riflessi della cultura, partecipando così in parte a quella stessa vita a cui la semiosis in un certo senso aspira.

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